Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

14 Agosto 2020

Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

La caratteristica principale della drammaturgia spiazzante di Sergio Blanco, commediografo e regista teatrale franco-uruguaiano, è esposta dall’attore cui compete il ruolo del Figlio nella commedia Il bramito di Düsseldorf: è «l’incrocio delle narrazioni reali e delle narrazioni di fantasia» che si concretizza «nell’autofinzione», regolata da un «patto con la menzogna» e ne «il lato oscuro dell’autobiografia» fondata invece «su un patto di verità».

Di fatto la figura di Blanco pare essere sempre presente nei suoi testi, distribuendo le sue molteplici sfaccettature di uomo e di artista nelle peculiarità dei suoi personaggi. Non importa scoprire il confine tra finzione e realtà, chiedendosi se l’autore sia veramente omosessuale o dissoluto nella vita per abuso di droghe, se intenda convertirsi all’ebraismo oppure se in lui sia presente un (in)conscio desiderio di uccidere il padre. Questa è la sostanza narrativa dei suoi testi, spigolosi e violenti, poetici e inquietanti, eppure capaci di raccontare il lato oscuro e tenebroso della nostra anima.

In Tebas Land, primo testo antologizzato nel volume di Cue Press, uno scrittore e drammaturgo si reca in carcere – o meglio, nel campetto da basket del carcere – dove deve incontrare Martino, un parricida, per scrivere un copione teatrale della sua vicenda personale. Inizialmente il ruolo del parricida è concepito per essere interpretato dallo stesso assassino, creando, in questo modo, il gioco dell’identificazione tra il protagonista della storia vera e il protagonista del dramma letterario. In un secondo momento subentra un vero attore che sulla scena si presenta con il suo nome anagrafico (Samuele) come interprete di se stesso e, al contempo, nel ruolo del parricida Martino.

Le dinamiche relazionali tra il drammaturgo e i due personaggi (il parricida e l’attore) sviluppano un percorso lineare, cui si incrociano significativi richiami letterari e culturali, come Dostoevskij, epilettico come il parricida, I fratelli Karamazov per quanto riguarda il senso del delitto, e San Martino da Tours, santo che condivide il nome del parricida in questione, che pure lui visse un rapporto tormentato con il padre.

Enigmatico e emblematico per il concetto di autofinzione è anche L’Ira di Narciso (2015), commedia interpretata dall’amico e drammaturgo Gabriel Calderón. Nel testo figura infatti un personaggio dal nome di Sergio Blanco: è invitato dall’Università di Lubiana a tenere una conferenza sul tema dello sguardo, che affronta analizzando il mito di Narciso. Mentre prepara la relazione, si dedica a corse nei parchi, a conversazioni con i colleghi e ai dialoghi con la madre via Skype, soprattutto a incontri sessuali con Igor, giovane sloveno conosciuto in un sito di appuntamenti dove scopre l’inquietante presenza di alcune macchie di sangue sulla moquette della sua stanza d’albergo. Il finale è agghiacciante.

Il citato Il bramito di Düsseldorf, testo inedito per l’Italia, ruota intorno alla morte del padre ricoverato in una clinica di Düsseldorf, città in cui l’autore si trova per scrivere il catalogo di una mostra d’arte su Peter Kürten – l’infame serial killer tedesco dell’inizio del XX secolo, conosciuto con il soprannome di «vampiro di Düsseldorf»; oppure per firmare un contratto come sceneggiatore di film porno per una delle più grandi società di produzione cinematografica del settore; o ancora perché votato alla conversione al giudaismo attraverso la circoncisione nella famosa sinagoga di Düsseldorf.

Da queste tre possibili ipotetiche motivazioni scaturiscono analisi sui limiti dell’arte, la rappresentazione della sessualità e la ricerca di Dio.

Collegamenti

10 Agosto 2020

Ecco infine il ‘metodo’ Mejerchol’d: lavorare, studiare e faticare. E la ‘biomeccanica’, la distanza critica dal testo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

La prima edizione degli scritti teatrali di V. Mejerchol’d uscì da Feltrinelli nel 1977, benché Editori Riuniti, nel 1962, avesse pubblicato, a cura di Giovanni Cirino, La rivoluzione teatrale che conteneva una parte dei suoi scritti. Per i registi degli anni Settanta fu una specie di shock, nel senso che trovarono in lui un modello diverso da quello brechtiano, appannaggio del Piccolo e di Strehler.

Ad appropriarsi della lezione del regista russo, fu, in particolare, il Gruppo della Rocca, con Roberto Guicciardini e con Guido De Monticelli, che avvalendosi della mamma Milly, docente di letteratura russa e traduttrice, poté approfondirne il metodo, mettendo in scena Il mandato di Erdman, che Mejerchol’d aveva realizzato nel 1925.

L’ottobre teatrale, 1918-1939 esce in una nuova edizione riveduta e corretta, sempre a cura di Fausto Malcovati, con una sua introduzione e con un più ricco apparato iconografico, anche a colore, presso l’Editore Cue Press. Il volume è diviso in due capitoli con tanti sottotitoli: Mejerchol’d e il suo tempo e Mejerchol’d: il suo teatro. Il lettore, pertanto, si troverà dinanzi a una serie di argomenti che vanno dalla Rivoluzione culturale, che coinvolse tutte le arti e, in particolare, il teatro, affiancato dalla ricerca laboratoriale, dalla pratica della biomeccanica e dalla teorizzazione di una nuova idea di regia, argomenti affrontati durante le conferenze e le lezioni che Mejerchol’d teneva con l’utilizzo esplicativo dei suoi spettacoli, più di quaranta lungo tutto il ventennio.

Il 1918 fu anche l’anno della fucilazione dell’intera famiglia Romanov e l’inizio di una nuova storia per la Russia. Lenin esortava gli intellettuali a fare in modo che il loro messaggio fosse chiaro, dovendo essere indirizzato al pubblico della Rivoluzione in massima parte analfabeta. I fermenti culturali portarono all’apertura di molti teatri, affiancati da scuole e laboratori, tanto da assistere a una vera e propria proliferazione. Uno dei progetti preferiti fu quello del Decentramento, al quale si accompagnò quello del Teatro di Quartiere, entrambi da noi sperimentati durante la rivoluzione sessantottesca. Mejerchol’d fu allievo fedele di Stanislavski che non si stancò di difendere quando qualcuno metteva in discussione il suo metodo, ritenuto alquanto superato benché con esso il maestro russo si fosse opposto al dilagante naturalismo, divenuto convenzionale e superficiale, nei teatri di Stato.

Mejerchol’d predicava il movimento, il dinamismo, che solo l’attore biomeccanico poteva realizzare sulla scena, dando vita a una forma di straniamento che avrebbe consentito la distanza critica rispetto al testo, anticipando quella del teatro epico di Brecht.

La parte più interessante degli scritti è quella che riguarda il lavoro di regia che, a suo avviso, non si poteva mai improvvisare, essendo fondato sull’approfondimento, sulla preparazione, sullo studio febbrile che concede poco spazio all’improvvisazione, a chi ha la smania di raggiungere un successo immediato e un facile gradimento. Di una cosa Mejerchol’d era certo: che non si possa essere registi di se stessi, perché si concede poco all’interpretazione critica, per raggiungere la quale occorre molto lavoro. Il teatro non si racconta, diceva, si fa con tanta fatica, assumendosene tutte le responsabilità attraverso un periodo abbastanza lungo di preparazione e di maturazione che richiede un ‘doloroso’ processo di analisi. Solo a questo punto è possibile penetrare il mistero di un classico antico o contemporaneo e afferrare l’inafferrabile.

Consiglio, soprattutto, la lettura a tutti quei giovani che credono di essere registi solo perché mettono in scena un testo.

Collegamenti

1 Agosto 2020

Un diario in versi

Paolo Spirito, «via Po»

«Apro la finestra e ho gli occhi pieni d’Arno oliva oliva come i tram d’una volta la mia Firenze della fine di marzo giù da San Miniato agli specchi di Santa Trinità trionfante e sobria come una campanella francescana il camioncino delle verdure scende ai mercati e tesse un’aria serica – liscia – coi fari accesi di prima mattina. È giorno. Non si odono voci nel crepitio della pescaia».

È una delle struggenti poesie di Giorgio Albertazzi, straordinario interprete e intellettuale che ci ha lasciati il 28 maggio 2016. Uno scritto che è parte della raccolta appena pubblicata postuma dal titolo Poesie e pensieri, Cue Press, 194 pagine, 22.99 euro – per espresso desiderio della moglie, Pia de’Tolomei di Lippa, che ha vissuto fino all’ultimo il grande faticoso privilegio di stargli vicino. Idea condivisa con l’attrice e partner di tanti spettacoli, Mariangela D’Abbraccio, e con Eugenio Murrali. Se Firenze si è drammaticamente scordata uno dei suoi figli migliori, non è così per gli affetti, per chi ha lasciato un segno, per il mondo dello spettacolo e della cultura che ancora attende che un Teatro della Sua amatissima Firenze gli sia dedicato. Come afferma Pia de’Tolomei di Lippa: «Le poesie di Giorgio si offrono come era lui e le sue interpretazioni a teatro: intime e pubbliche allo stesso tempo. Questo libro va considerato un diario in versi che attraversa la sua vita. Dall’infanzia, ricordo che lo ha accompagnato sempre, all’amore per la campagna fiorentina, fino ai legami familiari, passando per le relazioni sentimentali e professionali».

Stupenda, intensa, commovente la Prefazione di Walter Veltroni, che sposò Giorgio Albertazzi e Pia de’Tolomei: «Ho molto amato la sua libertà intellettuale, l’intensità delle sue passioni, la grandezza del suo talento. Eravamo diversi e per questo ci stimavamo e ci volevamo bene. Ai miei occhi, prima ancora di conoscerlo, era l’Attore».

Le poesie di Giorgio Albertazzi si offrono come le sue interpretazioni a teatro: intime e pubbliche allo stesso tempo. Un diario in versi che attraversa una vita. L’infanzia evocata, la campagna fiorentina, i legami familiari, le relazioni sentimentali e professionali, la costante presenza della compagna e poi moglie Pia, le figure umane e gli animali della Pescaia emergono qui come un’enciclopedia delle emozioni.

Si compone così il ritratto di un uomo, e di un attore, contraddistinto dalla libertà intellettuale, dall’intensità delle sue passioni e del suo talento, dal rimettersi, sempre e comunque, in discussione. Leggendo Poesie e pensieri, l’emozione è stata immensa, anche perché mentre leggevo sentivo la voce di Giorgio che le declamava (ma il termine non è il più adatto). Ha scritto Rodolfo Di Giammarco su «la Repubblica»: «L’ultimo, inatteso, appassionato, insospettabilmente delicato, e pentito, e struggente spettacolo di Giorgio Albertazzi è in un libro, Poesie e pensieri, pubblicato da Cue Press, co-curato con impagabile sentimento alla moglie Pia Tolomei di Lippa, da Mariangela D’Abbraccio, già partner e compagna, e da Eugenio Murrali. Ha senso di memoria storica e discreta, la prefazione di Walter Veltroni, dove si dà anche lustro ai versi umani dedicati all’attore Antonio Crast. Ma a sollecitarvi, a spiazzarvi direttamente saranno i bagliori di Mia vita e morte, l’ubriacatura di Muoiono i nonni, gli occhi pieni d’Arno de Il mio fiume, o l’arrivare impreparati di Filastrocca per un compleanno dell’ottuagenario Giorgio che nel 2003 butta giù parole in libertà perentoria al Teatro Argentina («Ai miei amici qui/ dedico la matassa/ intricata e anarcoide/ della mia vita»). Anche se poi le pietre miliari incastonate qua e là – bello il montaggio diacronico dei pezzi – ha a che fare col diario serio o fibrillante degli affetti, a cominciare dall’indimenticato testimoniare della dedizione di teatro-vita per Bianca Toccafondi, sostando sulla ditta d’arte e di scena condivisa con Anna Proclemer, rivedendo in moviola Mariangela D’Abbraccio, evocando Elisabetta Pozzi da giovane, di fatto soffermandosi con una vera letteratura di meditazioni, poemi, appunti ed emozioni mature per Pia Tolomei di Lippa. Qua e là cita Gassman, e scatta qualche inimmaginabile affinità tra le poesie per Pia e il «Donna mia, moglie mia…» che Vittorio riservò a Diletta nei suoi Vocalizzi. Bravo, Albertazzi, quando a posteriori mette in guardia tutti contro di lui: «Attenti, quando recito, ai vuoti, ai contrattempi/ ai controtempi, all’assenza e al delirio». Poi, certo, è dispersivo, fanatico e agé, con l’eterno femminino, ma sincero con Adriano. Questa è l’ultima sua scheggia autobiografica autorizzata».

E qui dismetto la veste di ‘recensore’ per lasciare che siano i ricordi di una vita a restituire il senso dell’Amicizia che mi legava (che mi lega) a Giorgio Albertazzi e a Pia de’Tolomei. Carissima Pia, sono sempre più convinto che più passa il tempo, più G – come hai amato sempre chiamare Giorgio – ‘comunichi’ non solo soprattutto con Te, ma anche con tutti coloro che, a vario titolo e con vissuti tra i più disparati, gli sono stati affettuosamente vicini nella sua lunga e intensa vita. Ecco, nel mio infinitesimale esserci stato, sento tantissimo la Sua presenza, quei Suoi occhi magnetici che sembrano volerti leggere dentro ma anche farsi leggere dentro, la Sua voce, unica e irripetibile, che sembra un canto, una melodia, un duende che seduce e sgomenta per l’essenzialità scabrosa…

Animula vagula blandula, Hospes comesque corporis, Quae nunc abibis in loca Pallidula, rigida, nudula, Nec, ut soles, dabis iocos…» (Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti).

Avremmo dovuto fare un film con Giorgio, Sogni reali – di cui avevo scritto soggetto e sceneggiatura con un mio carissimo collega Rai prematuramente scomparso – ispirato parte alla sua biografia Un perdente di successo, parte al suo rapporto con Gabriele d’Annunzio, con la Duse, negli ultimi anni al Vittoriale degli Italiani, con l’architetto Maroni, l’Ermete psicopompo…

Come spesso accade nel mondo del cinema, purtroppo non se ne fece nulla, ed è fin troppo scontato dirti che Giorgio, anche se non lo dava a vedere, intimamente ne soffriva, come me se non di più, perché quella sceneggiatura gli era stata letteralmente ‘cucita addosso’ e perché finalmente gli si sarebbe resa giustizia anche come grandissimo attore di cinema, oltre che di teatro e di televisione. Riaffiorano molteplici ricordi, come la prima di Memorie di Adriano a Villa Adriana di Tivoli, nel lontano luglio del 1989. Una pagina altissima nella Storia del Teatro di tutti tempi, con quelle parole di Adriano-Giorgio pronunciate sul finale del capolavoro di Marguerite Yourcenar: «Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti». Ecco, carissima Pia, credo che Giorgio sia proprio entrato nella morte come Adriano, ‘ad occhi aperti’, e quegli occhi, i Suoi occhi Ti accompagneranno e ci accompagneranno per l’Eternità.

30 Luglio 2020

Goffredo Fofi su cinema e teatro del Fronte Popolare

«Qui comincia — Rai 3 Radio»

Il libro del giorno è Cinema e teatro del Fronte Popolare di Goffredo Fofi.

Il Fronte Popolare francese degli anni Trenta non è stato soltanto il tentativo di costituire una coalizione politica socialista come alternativa all’egemonia del capitale, ha rappresentato anche un inesauribile laboratorio culturale.

Lungo le pagine del volume, Fofi rievoca con ironia, ma anche filologia storica, le tensioni e i sogni di quel breve ma intenso periodo.

Al centro la vivace attività cinematografica e teatrale.

Vengono così alla luce gli aspetti e le controversie di una parentesi politica e artistica che risulterà fondamentale per «il nuovo Rinascimento» dello scenario culturale francese del dopoguerra.

Collegamenti

9 Luglio 2020

Mattia Visani racconta la casa editrice

«Hollywood Party — Rai Radio 3»

Oltre all’approfondimento sul film Ombre di John Cassavetes e alle evocative suggestioni musicali di Stefano Zenni, la serata vedrà la partecipazione di Mattia Visani, editore della Cue Press.

Visani illustrerà la storia e la filosofia della casa editrice, approfondendo il progetto di riscoperta e ripubblicazione di testi rari e fuori catalogo, e presentando le imperdibili novità in arrivo.

Collegamenti

6 Luglio 2020

Elogio del disordine

Benedetta Colasanti , «Drammaturgia»

La recente riedizione Cue Press di Elogio del disordine, raccolta di testi autografi di Louis Jouvet, si fregia della Prefazione di Stefano De Matteis in cui si ricostruisce il percorso artistico dell’attore francese: dalla formazione con Léon Noël e Jacques Copeau, all’esperienza nel mélo e, nelle stagioni newyorkesi, presso il Garrick Theatre, fino alla carica di direttore tecnico dei teatri degli Champs-Elysées (1922) dove continuerà a svolgere anche l’attività attoriale.

Una carriera, quella di Jouvet, caratterizzata dalla «passione minuta, l’ossessiva attenzione, la riflessione costante sulla pratica e sulla materialità dell’agire», piuttosto che da un successo fortuito e immediato. De Matteis ci pone davanti a un uomo di formazione umanistica; a uno studioso di ampie vedute (laureato in farmacia) orientato verso la componente artigianale del teatro. Pur ostile alle classificazioni, Jouvet tramanda una serie di nozioni: «il comédien non ha che conoscenze pratiche», il teatro è un «luogo di poesia, sogno ed evocazione» e l’arte del teatro è «comunione nella menzogna», un tacito e convenzionale accordo tra autore, attore e spettatore. Senza prescindere dalla teoria Jouvet si rifà al Paradoxe sur le comédien (1830) di Diderot filtrato dalle riflessioni di Copeau e, prima, di Stanislavskij.

Rifuggendo coercitive definizioni e classificazioni, Jouvet propone un Elogio del disordine teatrale in quanto l’atto del «recitare è propriamente una distruzione di sé», «l’opera del poeta è un disordine» e il teatro tutto è un «tumulto interiore a suscitare nello spettatore la curiosità». L’attore è programmaticamente dedicato a professionisti come Garrick, sul filo della distinzione tra attore e comédien; a differenza del primo, vincolato dalla propria personalità, il secondo può interpretare qualsiasi ruolo. Del comédien si illustrano la formazione, i requisiti fisici, le modalità di interpretazione del testo, il rapporto col pubblico.

In Tecniche, personaggi, testi De Matteis ricostruisce l’opinione di Jouvet sull’arte della recitazione con un focus sul mélo e un paragrafo sulla Vocazione necessaria all’attore per rispondere alle proprie ricorrenti domande: «Perché diavolo sono qui? Che mania, che strana bizzarria, che sregolatezza». E ancora: «Perché sono lì, loro, gli altri, seduti in questa sala a guardarmi? Per quale curiosità?»

A una più breve riflessione su La recitazione seguono le Divagazioni del comédien: una descrizione dell’intimo rapporto tra attore e personaggio, dove il testo – la battuta – deve essere ricondotto al «momento dell’enunciazione interiore» al fine di non giudicare un personaggio «come gli psicologi, né fare deduzioni o induzioni come i logici» ma di accettarlo così com’è, con imparzialità.

Infine le Lezioni sul Tartufo sono dedicate alla pratica della messinscena e alle motivazioni che conducono via via alla scelta del testo.

Il volume è corredato dalle Note ad alcuni concetti ricorrenti, una storta di glossario redatto a partire dalle definizioni date da Jouvet (come appunto ‘acteur e comédien‘, ‘azione’, ‘carriera’, ‘esperienza’, ‘maschera’, ‘personaggio’, ‘teatro’), e da alcune sue lezioni di teatro. Segue una schematica Biografia cronologicamente organizzata.

Collegamenti

1 Luglio 2020

Un disordine incarnato, il teatro secondo Jouvet

Laura Bevione, «Hystrio», XXXIII-3

«Il teatro è disordine incarnato». È a partire da questa felice constatazione che Louis Jouvet muove le proprie osservazioni e i propri pensieri sull’arte teatrale, cui egli si approcciò per esperienza diretta, come attore e regista, e non soltanto quale studioso. Riflessioni articolate e complesse che sono ora finalmente tradotte, da Brunella Torresin, e pubblicate, con la cura di Stefano De Matteis, anche autore di un’approfondita introduzione. Sulla scia del Paradosso dell’attore di Diderot – di cui sono messi in luce i limiti – e dell’estetica ottocentesca, Jouvet tratteggia il suo sfumato ritratto del comédien, che è altra cosa rispetto all’acteur, quest’ultimo professionista che, anziché ‘essere abitato’ da un personaggio, lo ‘abita’ lui stesso – rivendicando la priorità della pratica quale base dell’elaborazione teorica – si tratta, d’altronde, di un «mestiere empirico». Jouvet, ancora, individua nel ‘sentimento’ ciò che contraddistingue il comédien, differenziandolo dal mero ‘declamatore’ di un testo. Tratta di respirazione e atteggiamento nei confronti del personaggio, di vocazione e del Conservatoire di Parigi, dove fu a lungo insegnante. Jouvet accosta aneddoti, incontri, osservazioni pregnanti non perché miri a elaborare una – impossibile – teoria dell’arte dell’attore, bensì poiché inconsapevolmente impegnato nella costruzione di una dettagliata antropologia, acuta e indubbiamente contemporanea, benché non sistematica. Ma leggendo i materiali compositi raccolti in questo prezioso volume – comprese anche le note Lezioni sul Tartufo e una sorta di ‘dizionario’ che sintetizza l’arte del comédien secondo Jouvet – è inevitabile riconoscere una precisa e solida idea di teatro, i cui contorni sono delineati più per esclusione e negazione che da una vacua assertività.

1 Luglio 2020

Il teatro francese, uno studio storico-critico

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXXIII-3

Agguerrito studioso di teatro francese e traduttore di saggi e testi, nonché critico teatrale, drammaturgo di pièces divertenti e insolite, Gianni Poli, con questo impressionante, complesso e problematico volume, compone una laboriosa e accurata storia dei ‘fatti teatrali’ che hanno contribuito a costruire un plausibile ritratto, peculiare e scientifico, del teatro in Francia dalle origini medievali al 1887. Uno sguardo che tiene insieme, in una comune idea di teatro, manifestazioni spettacolari molto diverse fra loro e collocate in differenti spazi, declinate in modalità diverse nel corso dei secoli rispetto al luogo e al tempo storico-sociale di appartenenza, ma tutte accomunate da una modalità di rappresentazione che ha i suoi fuochi centrali nello spazio/luogo di riferimento, nella figura dell’attore e nel testo scritto. Il problema di un’estetica teatrale che tende a farsi cronologia degli eventi, o storia e teoria dei medesimi, è continuamente presente nell’ampia e documentatissima riflessione storiografica di Gianni Poli, che fa appello a varie discipline – giuridiche, economiche, letterarie – in un costante incrocio di prospettive metodologiche, plurime e disomogenee, e tuttavia concorrenti ad ampliare e ridefinire i cinque capitoli in cui è divisa l’opera. Che ha l’ulteriore pregio di tenere fermi – nel suo fitto dialogare umanistico/filologico e in una prospettiva, non solo storica, rovesciata – la dimensione temporale dell’oggi e lo stato degli studi contemporanei più avanzati sulle scienze della rappresentazione con particolare riguardo alle tesi di studiosi accademici come Le Goff (sul significato di ‘documento’), Bloch e Febvre (fondatori degli Annales di storia economica e sociale), Marco De Marinis (a cui Poli rimane debitore della nozione di ‘storiografia’ applicata) e, per finire, Raimondo Guarino, di cui questo prodigioso e fondamentale lavoro rende quanto mai vera l’affermazione: «La metodologia storica ha smantellato la centralità dell’evento».

29 Giugno 2020

Dal teatro no al sumo al wrestling: Tutto è performance

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

A ciò che noi oggi chiamiamo teatro, gli uomini, in un’epoca diversa, davano un altro nome. Le rappresentazioni di Eschilo, Sofocle e Euripide erano rituali. Poi Aristotele codificò un’estetica del teatro. S’affermarono i ‘comportamenti recuperati’, l’arte simile alla vita. Finché adesso azzardiamo che ogni azione è una performance: anche se, a seconda dei contesti culturali e delle pratiche sociali, c’è distinzione tra quotidianità e intrattenimento. Ad aiutarci ad approfondire e a illustrare tutti i fenomeni espressivi c’è, tra i vari strumenti consultabili, Introduzione ai Performance Studies, un quotatissimo libro-manuale dello statunitense Richard Schechner, curato da Dario Tomasello, commentato da Marco De Marinis, la cui ricca dotazione iconografica meriterà un giorno o l’altro, auspichiamo, una mostra al nostro Palazzo delle Esposizioni (come avvenuto per Il corpo della voce su Bene, Berberian e Stratos).

Più che orientarvi a scoperte antropologiche, a codici recitativi e a sperimentazioni sceniche di cui questo volume è un catalogo affascinante, preferisco soffermarmi sul portfolio di immagini che catturano l’occhio declinando un repertorio concitato e cosmopolita di atti performativi. Cito per prima la comparazione tra le smorfie emotive (rabbia, felicità, tristezza, disgusto, ecc..) di soggetti orientali e occidentali. E gli allestimenti remoti di Cechov. Le foto di Woodstock. Le posture della Bill T. Jones Company, del sumo giapponese, di attori di Grotowski, dei wrestler americani, dei danzatori balinesi, dei tennisti di Wimbledon, di un Charles Laughton brechtiano, di un kathakali indiano, di marionettisti di Giava, di Angelica Winkler diretta da Wilson, del subcomandante Marcos, di una prima attrice di teatro no, di una personificazione di Gandhi nel Théatre du Soleil. C’è pure un biglietto di sarcastica protesta antirazzistica negli Usa del 1986.