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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.
In tournée tra gli scaffali
Certo, a teatro bisognerebbe prima di tutto andarci. Non si può, lo sappiamo, ma prima di morire di streaming potremmo per esempio tornare a leggerlo. E magari regalarlo a Natale in forma di libro. Fin troppo facile pensare a Shakespeare, che andrebbe compulsato dalla prima tragedia all’ultima commedia. Bisognerebbe finire ogni sera e aprire ogni mattina in sua compagnia, come suggerisce Nadia Fusini in Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni in Shakespeare (Mondadori). Saggio coltissimo e stregante, diletto garantito. Restando sulle spalle dei giganti, con Čechov si va sul sicuro. Sembra che non accada nulla e invece, tra una tazza di te e una vodka, finisce un mondo. La storia avanza e si porta via lo svolazzare dei vestiti bianchi nelle brevi estati russe, i giardini dei ciliegi, i pomeriggi oziosi e gli amori (quasi sempre sbagliati). Dice Trina, una delle Tre sorelle: «Verrà un giorno in cui sapremo il perché di tutto questo, di tante sofferenze. Allora non ci saranno più misteri, ma nel frattempo dobbiamo vivere!» Scritto più di cent’anni fa, perfetto per come ci sentiamo oggi.
Tutti i suoi capolavori, Il gabbiano, Tre sorelle, Zio Vanja, Il giardino dei ciliegi in unico volume, Teatro, con introduzione di Angelo Maria Ripellino e traduzioni di Gerardo Guerrieri, probabilmente le migliori (prestigiosissima collana I millenni Einaudi). E sempre dalle parti di Čechov, ecco Il medico, la moglie, l’amante. Come Čechov cornificava la moglie medicina con l’amante letteratura, delizioso divertissment d’autore a firma di Fausto Malcovati (Marcos y Marcos). Dalla Russia agli Stati Uniti, si finisce dritti tra le braccia di Tennessee Williams. Per Einaudi è da poco uscita una nuova traduzione integrale di Un tram che si chiama desiderio a cura di Paolo Bertinetti. In copertina c’è un Marlon Brando da urlo, con Elia Kazan fu interprete sia del debutto teatrale nel 1947 sia del film quattro anni dopo. Da regalarsi o da regalare, va bene comunque. Woody Allen, nella sua autobiografia, dichiara di avere un solo rimpianto: non aver scritto A Streetcar named Desire, fate voi. Tornando in Italia, non bisognerebbe lasciarsi sfuggire Tutte le commedie di Franca Valeri raccolte da La Tartaruga in un volume con prefazione di Lella Costa. Non le piaceva essere definita femminista, ma la sua verve e la sua intelligenza sono una lezione sublime. Soprattutto per gli uomini. Non per niente Alberto Arbasino la definiva «venerata maestra». A proposito di maestri, ma cambiando genere, c’è un’autobiografia che si fa leggere tutta d’un fiato, quella di Umberto Orsini. Si intitola Sold Out (Laterza): ha la stessa grazia, la stessa sapienza e lo stesso irresistibile fascino di chi l’ha scritta. Una vita avvincente come un romanzo, tra set e jet set, Luchino Visconti e le gemelle Kessler, grandi amori tempestosi (uno su tutti, Rossella Falk) e tanto, tantissimo teatro. Doppio salto mortale e dai fasti novecenteschi si entra di slancio nel contemporaneo con Realismo globale, una raccolta di testi di Milo Rau appena pubblicata da Cue Press. Genio controverso, pensiero radicale, militanza etica e politica, non se ne può prescindere. E per chi volesse fare un regalo prezioso, In Kantor, magnifico volume fotografico di Maurizio Buscarino sul teatro di Tadeusz Kantor (La Casa Usher).
Moderne estetiche neobarocche. E la scena, un non luogo senza tempo e senza testo, diventa un laboratorio digitale
Esiste ormai un canone, per il nuovo teatro, che non appartiene soltanto al teatro performativo, ma anche al teatro di tradizione, ed è basato sul diverso rapporto che si è venuto a instaurare con lo spazio scenico, con gli strumenti tecnologici, impensabili fino a un ventennio fa, con gli stimoli sensoriali che ne sono succeduti, con l’invenzione di scenografie che non si limitano a descrivere, ma ad esprimere, con le video proiezioni e con gli apparati sonori.
Questo canone ha trasformato la forma dello spettacolo, tanto da costruire dei palinsesti all’interno del palcoscenico, dove viene rappresentato un testo che non appartiene alla scrittura, ma alla memoria che viene utilizzata per drammatizzare un processo che è avvenuto dentro di noi e che, in alcuni casi, appartiene all’autobiografia artistica. È come se la multimedialità avesse preso il sopravvento su una idea di spettacolarità che sembra appartenere a un lontano passato.
Si nota una moderna estetica neobarocca dietro questa trasformazione, basata sulla ricerca dello stupore e della meraviglia, conseguenza di una teatralità che ha abbandonato i testi scritti, sostituiti da video-mapping, da interaction design e persino dall’intelligenza artificiale. Si è andato oltre i teorici antesignani, come Shechner o Lehman, per accedere alle ‘meraviglie’ di Lepage, alle contaminazioni di Anagoor, di Studio Azzurro, di Instabili Vaganti. Il critico, pertanto, non è più chiamato a interpretare il pensiero, la filosofia di un testo, quanto quello di una drammaturgia digitale.
Ho ritenuto necessario questo preambolo per poter parlare dell’esperienza condotta da Instabili Vaganti che è anche frutto della loro maniera di intendere la scrittura scenica, ben presente nel volume The Global City, pubblicato da Cue Press, contenente il testo e la drammaturgia di Nicola Pianzola, le note di regia di Anna Dora Dorno, oltre agli scritti di Simona Maria Frigerio ed Enrico Piergiacomi.
The Global City che, nella forma dello spettacolo, aveva debuttato nell’ottobre del 2019 presso la Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova, voluto dall’allora direttore Angelo Pastore, oggi è diventato un libro, il cui testo è stato il pretesto per la creazione di una messinscena, rispetto al quale, grazie alla regia della Dorno, è apparsa del tutto autonoma.
L’argomento, molto sintetico, ha per protagonista un emarginato che cerca di sopravvivere facendo mestieri diversi, tra i quali quello di un venditore ambulante di ricordi.
La struttura è costituita da un prologo, da dieci trasfigurazioni e da un epilogo. Pianzola e Dorno hanno sostituito la parola ‘scena’ con ‘trasfigurazione’, proprio per evidenziare subito la loro scelta: pur partendo da una realtà sociale, quella delle grandi metropoli, questa realtà viene semplicemente trasfigurata. Le megalopoli sono quelle di alcune città messicane, coreane, indiane, dove i due artisti hanno trovato lunghe ‘residenze’, i cui luoghi emergono grazie a un abile uso delle immagini e delle video proiezioni, ma, soprattutto, al modo particolare con il quale vengono miscelati i vari linguaggi, sia visivi che sonori, mentre il lavoro della regia si concentra sul corpo dell’attore-performer che occupa il palcoscenico interagendo con le immagini proiettate, con gli oggetti e con i costumi coloratissimi, dove non manca l’uso del microfono.
La struttura drammaturgica ha una sua complessità dal punto di vista scenico, essendo immersa in un ‘non luogo’, ma anche in un ‘non tempo’, trattandosi di un tempo infinito, senza lancette, durante il quale, prendono vita i frammenti della memoria e della narrazione.
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Da Socrate a Freud per scoprire il rapporto tra finzione e verità. E pensare che in due parole già disse tutto Eduardo
Abbiamo conosciuto, recentemente, lo scrittore franco-uruguaiano Sergio Blanco grazie al Festival Vie, organizzato a Modena da ERT (Emilia Romagna Teatro), dove è stato rappresentato Il bramino di Dusseldorf, e al Festival LAC, diretto da Carmelo Rifici, dove è andato in scena Memento mori.
L’editore Cue Press ha pubblicato non solo tre testi del suo Teatro: Tebas Land, L’ira di Narciso, Il bramino di Dusseldorf, ma anche un testo teorico, Autofinzione, in cui l’autore cerca di spiegare la sua poetica, ovvero il suo modo di intendere il lavoro di scrittura, attento a rappresentare la realtà in forma di finzione.
Blanco dichiara subito che il termine lo ha preso in prestito dallo scrittore francese Serge Doubrovsky (1928- 2017) che nel suo romanzo più noto, Fils (1977), scritto in forma autobiografica, racconta la sua vita, a suo giudizio «impossibile a conservare, ma possibile a inventare», come dire che l’autobiografia sia incompatibile con la verità, essendo in balia della finzione immaginativa, tanto da non assicurare un racconto autentico. Blanco, prima di esporre il proprio Decalogo, per giustificare la sua idea di Autofinzione, ne ripercorre le origini, partendo dal «conosci te stesso» di Socrate, per attraversare, successivamente, autori come San Paolo (Lettera ai Galati), Sant’Agostino (Le Confessioni), Santa Teresa (Emanazioni dell’anima), Montaigne (Saggi), Rousseau (Le Confessioni), Stendhal (Vita di Henry Brulard) e, ancora, Rimbaud, Nietzsche, Freud e le successive scoperte psicoanalitiche sulla conoscenza profonda del proprio Io. Non cita Pirandello, forse non lo ha mai letto o visto, perché si sarebbe accorto che, gran parte del suo teatro, è costruita sul rapporto verità-finzione.
A mio avviso, Blanco non inventa nulla riguardo il problema dell’identità, anche perché gran parte della narrativa e del teatro ha avuto come oggetto l’arte di narrare o rappresentare se stessi. Inoltre, c’è da ricordare che, sulla scia dell’Autofinzione, si è imposta l’Autofiction che ha grande fortuna, soprattutto, nelle produzioni televisive. Spesso, ci si chiede quanto possa essere etico svelare i dettagli privati della propria vita, soprattutto se su di essi si costruiscono trasmissioni televisive che sembrano uscite da un letamaio, dato che il vero e il falso fanno spettacolo, anche se di pessimo gusto. C’è da dire che ciò non si verifica nelle opere d’arte, dove, spesso, verità e finzione sono inestricabili e dove la realtà può essere trasfigurata in una dimensione drammatica, ma anche favolistica, onirica, metafisica, pur mostrandosi fintamente reale.
Blanco sostiene che le sue Autofinzioni non intendono autocelebrarsi, considerandole un tentativo di capire se stessi per arrivare agli altri. Per un simile motivo, ha creato il Decalogo nel tentativo di definire l’Autofinzione, a cui si arriva, a suo avviso, attraverso un processo che può fondarsi su: la conversione, il tradimento, l’evocazione, la confessione, la moltiplicazione, la sospensione, l’elevazione, la degradazione, l’espiazione e la guarigione. Si tratta della parte più originale del breve trattato, in cui si cerca di spiegare come raccontare se stessi e, nello stesso tempo, come ‘farsi finzione’. Blanco, per dimostrare la sua teoria, porta esempi tratti dai suoi testi, da quelli citati a Kassandra, Ostia, Cartografia di una sparizione, nei quali il proprio vissuto si trasforma in materia grezza, spetterà all’Autofinzione la maniera di reinventarla, perché la tecnica della reinvenzione, tra esagerazione e degradazione, permette di tracciare un percorso che è anche di ‘guarigione’. Nell’Arte delle commedia, Eduardo sosteneva: «In teatro la suprema verità è sempre la suprema menzogna». Ma Blanco non conosce neppure il grande autore napoletano, dato che non lo ha mai citato.
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Tu es libre di Francesca Garolla
Leggere un testo e vedere uno spettacolo sono modi diversi, talora molto diversi, di rendersi conto intimamente della realtà che ci circonda, ci penetra e spesso si nasconde nella nostra memoria trasformandosi a volte anche in falsa conoscienza, di rendercene conto dunque per poterlo smascherare questo esserci che siamo, consapevolmente e inconsapevolmente.
Qualche volta però, raramente, sono modi diversi ma sovrapposti e quasi combaciano, come in questo caso ove il testo sembra portare con sé, quasi incorporandolo, lo spettacolo stesso, evocandolo fin quasi a suggerirlo.
È un bel testo infatti, potente ed evocativo, che si muove con sapienza sul filo del nostro rifiuto, il rifiuto di un mondo in guerra che crediamo non ci appartenga, forzandolo, questo rifiuto, fino a farci diventare una parte di quel mondo, un protagonista comunque, volente o nolente, complice oscuro o evidente strenuo avversario. Un testo che è un interrogativo dunque, un interrogativo che lo titola e lo percorre, riguardandoci.
Perchè Haner è partita per la Siria offrendo la sua vita? Fino a che punto la libertà, o se così vogliamo chiamarla, il libero arbitrio consente la scelta di rinunciare alla libertà stessa e alla vita nostra e degli altri? Queste le domande, le risposte riguardandando la scena e gli spettatori, ovvero qui i lettori.
Esce per I testi di Cue Press questa scrittura di Francesca Garolla, drammaturga di Teatro i di Milano, segnale di una maturazione in corso e frutto di un percorso e di un contesto europeo coordinato nell’iniziativa di Fabulamundi, accompagnato dagli interventi di Attilio Scarpellini e di Christian Raimo e dalle note di Renzo Martinelli, regista dello spettacolo ora in tournée.
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Teatro
Riflettendo sulla composizione delle novelle e del dramma I fanatici, Robert Musil ne rivelò il principio narrativo: «L’ho chiamato quello dei ‘passi motivati’. Non far accadere nulla (oppure: Non far nulla) che sia interiormente di valore. Ciò significa anche: Non far niente di casuale, niente di meccanico».
Questo assunto, che mette i discussione il dominio della casualità, fondando una visione antimetafisica del mondo, attraversa i tre testi pubblicati in questo prezioso volume tradotto e curato da Massimo Salgaro, che nell’introduzione affronta tematiche cruciali per capire la drammaturgia musiliana solitamente interpretata come «unspielbar», ossia inadatta alla scena tanto da conoscere all’epoca fallimentari allestimenti di contro alla felice rivalutazione odierna. Calato nel suo contesto storico-culturale, l’autore de L’uomo senza qualità prende le distanze dalla protesta giovanile del coevo espressionismo che, a suo dire, avrebbe prodotto arte del tutto priva di idee incisive, vuote e banalmente urlate.
Eppure questo confronto, polemico e di distacco, con l’avanguardia attraversa i tre testi raccolti in volume, a partire dall’inedito per il lettore italiano Preludio al mélodrame Lo zodiaco scritto nel 1920, «una specie di requiem, al teatro espressionista», sostiene Salgaro, dal quale assume, per esempio, il tema del viaggio, in questo caso di Uomo durante l’inverno. Incontra, nel corso di una violenta bufera di neve, figure allegoriche – la Morte, il Freddo, la Miseria, la Tempesta –, soggetti antagonisti tipici dell’epoca guglielmina – il Politico, il Giudice, il Professore –, e figure femminili quali la Celeste, una Donna, la Madre. Alla fine Uomo sarà condannato a morte per il suo torbido passato e giacerà ricoperto da un manto nevoso.
Protagonista de I fanatici, l’opera più importante di Musil scritta tra il 1908 e il 1920, è la forza della menzogna intorno alla quale si sviluppa una trama scarna, puntellata da torbide relazioni vissute da sognatori coinvolti in un gioco ambiguo di sopraffazioni e di annientamenti. Il dramma si ambienta in una lussuosa casa di campagna abitata da Thomas, affermato scienziato, e dalla bella moglie Maria. Ospitano Regine, sorella di Maria sposata con Josef e vedova tormentata di Johannes, il ricercatore di dubbio valore Anselm e la signorina Mertens, ai quali si unisce il detective Stader che, ingaggiato da Josef, smaschera Anselm, dimostrando il suo essere seduttore e impostore che non gli impedisce di convincere la stessa Maria a fuggire con lui. Nel testo dominano dialoghi intensi e profondi, capaci di scavare nelle viscere psicologiche e esistenziali dei vari personaggi.
Completa il volume Vinzenz e l’amica degli uomini importanti. Scritta nel 1922 e presentata in prima assoluta nel 1923 al Lustspielhaus di Berlino, la farsa presenta uno spaccato della società borghese simile a una fiera di vanità animata da bizzarri soggetti imbevuti di narcisismo e superbia. Intorno ad Alfa, moglie del dottor Apulejus-Halm, si agitano una schiera di ammiratori-corteggiatori e l’ex fidanzato e amico d’infanzia Vinzenz, ingaggiato dal marito per rivelare i tanti tradimenti della donna. Anche lui si rivela un mentitore, anche se le sue fantasie corrispondono alla realtà e proietta le vicende in una visione che lambisce il teatro dell’assurdo, perché in sé «i fatti sono fantastici».
Così diversi e così simili i personaggi di queste tre commedie condividono il loro essere pallide nudità decorosamente vestite da pensieri finemente profondi e destinati al nulla; quel nulla che parafrasa la fine del mito dell’Austria felix che il dotto e geniale scrittore di Klagenfurt racconta all’interno della sua opera.
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Alla ricerca d’un Dio perduto. Ma nell’arte (e nel teatro, nelle forme invisibili del misticismo) Egli potrà ancora rivelarsi
In Italia, per molto tempo, la letteratura nordica ha avuto, come punti di riferimento, Ibsen e Strindberg. Soltanto verso la fine del 1900 ha scoperto autori come Lars Noren, svedese, classe 1944, o come Jon Fosse, norvegese, classe 1959, un po’ snobbati, a dire il vero, dalle grandi case editrici e dai Teatri Stabili, anche se, abbastanza recentemente, lo Stabile di Torino ha prodotto Sogno d’autunno, visto anche a Milano, al Franco Parenti, con la regia di Valerio Binasco, protagonisti Giovanna Mezzogiorno, Michele Di Mauro.
Altri drammi come Caldo, Insonnia, Io sono il vento hanno suscitato l’interesse di giovani attori e giovani registi. A proposito di Fosse, molte sono state le definizioni sulla sua poetica e sul suo linguaggio: cantore dell’infelicità quotidiana, dell’incomunicabilità, autore di un linguaggio asciutto, ripetitivo, asettico, analitico, capace di sezionare la frase per trarne significati diversi. Dei suoi testi si sono interessati registi come Patrice Chéreau e Thomas Ostermeier.
L’editore Cue Press ha pubblicato, a cura di Franco Perrelli, noto conoscitore della drammaturgia nordica, il volume Saggi gnostici, dove sono raccolti molti interventi sulla letteratura e sul teatro, a cui Fosse si è avvicinato dopo anni di narrativa, con la consapevolezza che il linguaggio letterario sia ben diverso da quello saggistico o drammaturgico, e che la teoria ha poco a che fare con la creazione artistica.
Chiediamoci subito perché saggi gnostici? Per Fosse, la risposta è alquanto chiara: perché la conoscenza sta a base di tutto e perché da essa, al di là della fede, dipende la salvezza spirituale. A tale proposito, Fosse è andato alla ricerca di un Dio perduto, scoprendo che Egli si rivela attraverso l’arte e la gnosi, le sole che permettano di conoscerlo in profondità. Il vero teatro è quello che sulla scena è «attraversato dall’angelo», grazie al quale, la scena stessa diventa ‘mistica’. Compito della scrittura, pertanto, è far conoscere ciò che risulta sconosciuto o che viene ad esistere per la prima volta, essa può essere espansiva, come quella di Ibsen e Joyce, o riduttiva come quella di Beckett e Bernhardt, autori ai quali si sente più vicino.
Per Fosse, buon conoscitore del pensiero di Wittgenstein, l’arte drammatica ha la capacità di realizzare il vero, facendolo accadere, parafrasando, in tal modo, l’inizio del Tractatus, dove si legge: «Il mondo è tutto ciò che accade», come a significare che siamo tutti uomini d’azione. A tale proposito, Fosse scrive: «In ogni caso c’è una conoscenza su come noi, spesso, attraverso dichiarazioni emotive e silenzi, per così dire, ci creiamo l’un l’altro anche come significativi e impegnati uomini d’azione». In un suo dramma, La notte canta i suoi canti, la protagonista si chiede: «Cosa fa accadere ciò che accade?
La buona drammaturgia, non solo deve chiedersi ciò che accade, ma come accade, in questa ricerca, sostiene Fosse, la si sente più vicina all’uomo per poterne scrutare i segreti e i misteri. Forse per questo, Fosse ricorre allo gnosticismo, perché, nei segreti del genere umano, si trovano forme dell’invisibile e il teatro dà il meglio di se quando è capace di rappresentarlo, quando porta in scena l’inspiegabile, da cui dovrebbe scaturire l’azione, non quella convenzionale, ma quella fondata sulla tensione, sulla intensità, perché il dramma non va costruito sulla discussione, bensì sul pensiero, per la cui esecuzione ha bisogno di un attore che sappia elevarsi, rispetto al personaggio, e che sappia distanziarsene, dovendo essere contemporaneamente ‘parte e totalità’. Al suo lavoro, però, deve corrispondere quello dello spettatore che dovrà essere capace di ‘connettersi’ con quelli che Fosse chiama «momenti magici» o «istanti privilegiati». Il volume è preceduto da una sapiente introduzione di Franco Perrelli, che ne è anche il traduttore.
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Le qualità nascoste dell’ingegner Musil
Nella favolosa galleria di campioni che ci regala Elias Canetti nel Gioco degli occhi, a proposito di Robert Musil si legge: «Era sempre in armi, pronto alla difesa e all’attacco».
Nel primo dopoguerra quello che diventerà l’autore de L’uomo senza qualità trasforma la sua postura di ex militare in una specie di corazza mentale, una disciplina interiore che lo induce ad affrontare la vita, anche nei momenti più difficili, «come un greco antico».
Di formazione ingegnere, ma in seguito laureatosi anche in Filosofia, dopo l’esperienza della Grande guerra sul fronte italo-austriaco (come l’ingegner Gadda), rinuncia a un’allettante carriera accademica per consacrarsi anima e corpo alla scrittura. Canetti sottolinea in più luoghi della sua memorabile autobiografia l’importanza della precarietà per questo tipo di vocazione, l’arrischiamento senza rete nel quale lo scrittore deve saper credere per gettarsi nella propria ricerca. A tal proposito ricorda che, prima a Berlino e poi a Vienna, fu organizzata la Musil-Gesellschaft, una società di amici – intellettuali, artisti, tutt’altro che facoltosi mecenati – che si autotassavano per sostenere il lavoro dell’autore de L’uomo senza qualità, il cui primo volume, uscito nel 1930, aveva ottenuto un grande successo di critica ma non certo di pubblico.
È un fatto che mi piace ricordare non solo per la luce che sprigiona, ma soprattutto per la coda divertente raccontata da Canetti. Pare infatti che Musil tenesse la lista mensile dei pagamenti e ai «morosi» mandasse la moglie affinché ottemperassero agli impegni presi. Parliamo insomma di un uomo a cui non faceva difetto la consapevolezza e che, forse grazie a questo, ha saputo ironizzare sulle proprie difficoltà economiche anche nei tempi in cui era praticamente uno sconosciuto.
Ed eccoci quindi dieci anni prima, nel 1920, quando Musil scrive la sua prima pièce teatrale, dove il protagonista, in un dialogo acceso con la Miseria, la rampogna così: «Per Dio, infatti hai iniziato ad amarmi solo da quando ho compiuto trent’anni. E come hai tramato sobriamente! All’inizio solo una visita fugace ogni mese o due, che mi scaldava, ma senza stancarmi. Poi un paio di ore di compagnia al giorno. E da un certo punto eri tutte le notti a letto con me e non era più possibile spingerti fuori dalle doghe».
Sto citando da Preludio al melodrame Lo zodiaco, testo inedito e mai rappresentato in Italia, che ora viene pubblicato insieme alle altre due opere teatrali di Musil, I fanatici e Vinzenz, in un libro a cura di Massimo Salgaro, per i tipi dell’editore bolognese Cue Press. Si tratta di un testo di non facile messinscena, tanto che con grande schiettezza lo stesso Salgaro, nel saggio introduttivo, ne sottolinea le scarse potenzialità drammaturgiche e ne suggerisce paradossalmente una sua più idonea fruizione sulla pagina scritta. È peraltro un modo intelligente per trasformare il limite del Lesendrama (dramma da leggere) in una risorsa, favorendo una migliore contestualizzazione di queste opere nella produzione letteraria dello scrittore austriaco.
Il preludio al melodramma è pensato, come si capisce dal titolo, per una combinazione di musica e parola, con parti cantate e parti recitate che non sono collegate da nessi logici né da un’azione scenica. I personaggi non vengono tratteggiati, mancano volutamente di spessore, essendo niente più che figure allegoriche: la Morte, il Freddo, la Donna, il Figlio, il Giudice, eccetera. Ognuna di esse si ferma sulla scena il tempo di un dialogo fugace con il protagonista, l’Uomo, dando vita a una girandola di voci dalle battute salaci, talvolta sprezzanti, apparizioni che hanno la stessa ferocia, la stessa tagliente bidimensionalità, dei volti che compaiono sulle tele di George Grosz.
Dopo un primo battibecco dal sapore beckettiano, l’Uomo si ritrova a ripercorrere in solitudine le figure centrali della sua vita, sulla scia del modello strindberghiano dello Stationendrama. Allo spettatore-lettore non resta che accompagnare il protagonista nel suo viaggio in un passato pieno di acuti e stonature, parto della sua memoria strimpellante. Spezzati, infatti, i nessi della drammaturgia, anche Musil rinuncia ai rapporti intersoggettivi nel segno del teatro espressionista che, come dice Peter Szondi nella Storia del dramma moderno, «tratta l’uomo come un’entità astratta».
Il Preludio risente molto dell’espressionismo – del suo assunto formale, non già della moda – benché sia evidente, e in molti passi esplicita, la volontà dell’autore di superarlo. L’azione sostituita dal racconto, il doppio registro, tragico e comico, il ritorno al monologo (espunto dal teatro naturalista), i personaggi ridotti a puro schema, all’interno di canovacci che solo nella rappresentazione trovano la loro compiutezza artistica: questi tratti sono facilmente riconducibili al movimento dal quale Musil intende prendere le distanze.
Siamo nel 1920, lo stesso anno del Gabinetto del dottor Caligari, il capolavoro di Robert Wiene, un cinema fatto di lunghe inquadrature fisse, dove gli attori recitano con le facce truccate fino a diventare mascheroni, prigionieri di scenografie che amplificano i loro sguardi allucinati. L’idea di un mondo che vale per sé, che non è copia di nessuna realtà ma nasce, al contrario, nell’attimo stesso in cui va in scena. Da poco è stato fondato Die Brücke, il ponte verso un futuro perfetto, secondo l’auspicio nietzschiano da cui traggono ispirazione Hermann Obrist, Ludwig Kirchner e gli altri fondatori del movimento, pittori animati in egual misura di sentimenti neoromantici e violenta critica al realismo impressionista.
È questa la temperie culturale in cui nascono i drammi di Musil. Ma la sua indole di solitario antagonista lo mette al riparo da ogni mimetismo. Musil non cerca lo scontro frontale con la tradizione, le istanze di rinnovamento dell’espressionismo gli paiono per molti aspetti già superate. È lontanissimo, lui ingegnere, dallo spiritualismo antiscientifico. Trova ridicola l’opposizione tra l’uomo della tecnica e l’uomo nuovo. Non condivide la protesta antiborghese né tantomeno l’afflato giovanilista. Anche riguardo alla profezia di Zarathustra, vessillo degli espressionisti, lo scrittore austriaco reinterpreta le parole di Nietzsche alla luce della sua gelida ironia, in modo che l’Ubermensch (non super– bensì oltre-uomo, come ci ha insegnato Gianni Vattimo) non assuma i connotati di una gioiosa comunità postera, semmai sospinga l’individuo verso una più radicale solitudine. «Voglio morire da solo».
Grida a un certo punto il protagonista e, ahinoi, così sarà. In pieno stile musiliano, l’ultima stazione è un dialogo tra due fiocchi di neve in lenta discesa sul cadavere che puzza di grappa. L’effetto sullo spettatore-lettore è garantito: si sta così male che si ride. Certo, si tratta di una lettura anomala, tuttavia per gli appassionati può essere un ottimo modo per concedersi il teatro in casa, magari alternandola alle visioni degli spettacoli in streaming o comunque ripescati in rete.
Teatro da leggere
Sarà anche una nicchia (il 3,3% dei libri per adulti pubblicati in Italia), ma l’editoria teatrale di questi ultimi anni non ha subito né tracolli, né soste, è rimasta attiva e ci ricorda che il teatro non è solo il palcoscenico (ahinoi chiuso ora per misure antiCovid) ma anche la bellezza di commedie, drammi, biografie di artisti, avventure sperimentali di pionieri… Storie, non solo breviari per i fedeli del genere. Restiamo alla drammaturgia – i testi cioè che poi si mettono in scena – mai stata così viva in Italia e in Europa. È un’appassionante e tragica saga famigliare che si incrocia alla storia del Novecento e a una riflessione sulla perdita di senso del linguaggio Architettura di Pascal Rambert, autore di punta francese da leggere nel volume Teatro. Publicato da Sossella Editore è nella collana Linea che, in collaborazione con Ert-Emilia Romagna Teatro, è una fucina di novità della drammaturgia contemporanea e scoperte di autori: freschi di stampa sono Wet Market. La fiera della (nostra) sopravvivenza dove Paolo di Paolo fa raccontare successi e cadute della scienza e della medicina ai personaggi di un mercato, e La mia infinita fine del mondo di Gabriel Calderón appena messo in scena da Lino Guanciale. Chi ammira da sempre il suo teatro scritto sul corpo dell’attore deve leggere Bestiario teatrale (Rizzoli) con i testi degli spettacoli di Emma Dante. Alcune pagine fanno dire: oddio non capisco, per via della lingua, ma poi cattura proprio quel siciliano intrecciato all’italiano in lavori come ’M Palermu e Le sorelle Macaluso. Black humour puro con Franca Valeri: se il grosso del suo lavoro è in Tutte le commedie (la Tartaruga), il consiglio è di godersi La Ferrarina-Taverna (Einaudi): una ostessa – una delle sue donne antipatiche e scanzonate – travolge di chiacchiere una coppia di commensali in crisi senza rendersi conto di quello che accade. Sempre bello da leggere Robert Musil, lo scrittore di L’uomo senza qualità: nella raccolta Teatro c’è anche l’inedito per l’Italia Preludio al mélodrame Lo zodiaco. È una novità di Cuepress che ci accompagna nel campo dei saggi non solo con l’annuncio per febbraio di The theatrical Notebooks di Beckett, ma con la riedizione ampliata a cura di Fausto Malcovati di una vera ‘Bibbia’, L’ottobre teatrale 1918-1939 di Vesevolod E. Mejerchol’d, tra i grandi guru del teatro del Novecento: pensieri sulla rivoluzione, annotazioni di regie, polemiche furiose, in un’avventura umana e artistica appassionante. Sempre tra i nuovi saggi, due testimonianze: Napule ’70 (Pacini ed.) sulla storia di Chille de la Baldanza, la compagnia di Claudio Ascoli coautore con Matteo Brighenti e L’attore nella casa di cristallo (Titivillus) sul progetto teatrale in tempo di Covid di Marco Baliani. Infine, benedetti gli audiolibri che ci ridanno la voce degli attori: Giuseppe Battiston restituisce il sapore della provincia di Simenon in Maigret, quattro audiolibri di Emmons , dove c’è anche Rodari letto da Claudia Pandolfi, Claudio Bisio, Lunetta Savino in tre audiolibri per bambini. E adulti in cerca della giusta leggerezza.
Robert Musil, Teatro
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