Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

8 Aprile 2021

Teatro di Rémi De Vos

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

«De Vos scrive testi scottanti sul declino dell’Occidente, sui problemi del lavoro, sulla violenza razzista, maschilista e omofobica e sulla disgregazione della coppia borghese […], passati al setaccio dell’umorismo e del grottesco, rivelando l’assurdità delle ideologie dominanti». Così Siro Ferrone introduce questa interessante raccolta di testi del francese Rémi De Vos, che vanta un lusinghiero successo internazionale (è tradotto in quindici lingue) a fronte di una assai modesta considerazione italiana.

Spetta al centro di produzione teatrale Pupi e Fresedde del Teatro Rifredi di Firenze la prima nazionale di Alpenstock (2005) per la regia di Angelo Savelli. Al centro della commedia, con cui si apre questa preziosa antologia, si pone una giovane coppia che abita nell’immaginario paese montano di Kirilo. L’armonia coniugale è prima turbata poi lacerata dall’arrivo di Yosip, l’immigrato di fantomatica nazionalità balcano-carpato-transilvana. Esplode il razzismo del marito, acceso sostenitore di valori di purezza di razza contaminati da maschilismo, che uccide l’intruso, forse metaforicamente perché il morto resuscita e, in modo grottesco e farsesco, si ripresenta più volte.

In Finché morte non ci separi (2003) risvolti altrettanto grotteschi e demenziali si intrecciano in una catena di sequenze narrative apparentemente lineari ma di fatto folli: un’urna funeraria, contenente le ceneri dell’anziana madre di Madelaine, cade dalle mani di Anne, amica del figlio Simon, e si rompe: per rimediare il disastro, il ragazzo dice alla madre di aver regalato il macabro oggetto alla ragazza come segno di fidanzamento e di aver disperso in contenuto in giardino. Manca l’elemento tragico, le tensioni sono aggirate da passaggi narrativi esilaranti che rendono i personaggi segni di esistenze assurde.

Una scrittura veloce e asciutta caratterizza Occidente (2004), testo presentato al pubblico italiano nella seconda edizione di Face à Face-Parole di Francia per scene d’Italia nel 2011 (regia di Silvie Susnel). Tra una coppia si anima un dialogo violento e nevrotico, pieno di reciproci insulti, per recuperare un’identità smarrita anche a livello erotico. Lui è uno «sporco fascista, alcolizzato e impotente» tanto che nelle sue parole si annidano evidenti veleni razziali contemporanei.

L’ossessione oscura è il tema dominante di Tre rotture (2012) vissute da una coppia in crisi in tre distinti quadri: nel primo, una sontuosa cena culmina con «io ti lascio» detto dalla moglie, cui segue la scena in cui la donna, legata ad una sedia, è imboccata dall’uomo con la carne del cane per poi rivelare i reciproci tradimento; nel secondo, il marito dichiara la propria omosessualità scoperta a seguito di un incontro con un pompiere conosciuto in palestra. L’inconsistenza interiore dei due personaggi produce un gesto violento, declinato in modo grottesco e surreale: l’uomo abbandonato versa un bidone di benzina addosso alla donna, accende e spegne più fiammiferi… Nel terzo quadro le relazioni familiari sono complicate da un figlio viziato e violento visto che «È lui a decidere», dice la donna, in merito alla ipotizzata separazione della coppia.

I personaggi di De Vos sono maniacali e ossessionati da paure che li rendono banali e soprattutto diffidenti. Si aggrappano, nel vuoto del pensiero, a soluzioni reazionarie con cui declinano la violenza fisica e verbale. Incarnano, in definitiva, molti individui d’oggi, planetari, catastrofici, assurdi.

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5 Aprile 2021

Parole che disvelano la verità: Barabba di Antonio Tarantino e il dialogo sulle Sette parole di Cristo

Nicola Arrigoni, «La Provincia di Cremona»
È ancora l’interrogativo «Quem qaeritis?» che frulla nella testa. È il cercare, il chi o il cosa è un puro accidente. E la ricerca è nella parola che dischiude mondi che – non solo in teatro – dice e fa, allude e agisce. Cosa si va cercando, dove il nostro errare ci conduce? Cosa andiamo cercando? Forse la parola che ci sveli l’essere delle cose, laddove la parola verità è disvelamento. Per questo interrogare la parola agita del teatro è offrirsi la possibilità di un errare, ovvero di un percorrere lande incognite in cerca di un nuovo inizio, di una scena rinnovata e inattesa, di una landa desolata in cui entri una delle Tre sorelle e improvvisamente conti i posti a sedere… Stupore rinnovato nelle Tre sorelle di Anton Čechov di Massimo Castri che si apre a Thomas Eliot e Samuel Beckett. E questo perché la parola poetica è demiurgica, fa mondo. «L’arte non è imitazione nel senso di riproduzione di un mondo, per altro già dato e aperto, ma è apertura di un mondo, così il linguaggio poetico non è un segno che rinvia a qualcosa che è già dato, ma è il luogo in cui l’essere di dà, si eventua (…) La parola poetica, come l’opera d’arte, è un cominciamento assoluto, è l’aprirsi di un mondo, in cui qualcosa di assolutamente nuovo viene all’essere». Umberto Galimberti nel suo saggio Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente (Feltrinelli, pagine 320, 30 Euro) dà seguito al Quem quaeritis? Ciò ci permette di introdurre due altri testi, due altri spunti, pre-testi sulla parola poetica che trasforma. Il primo è il monologo Barabba di Antonio Tarantino, a cura di Sandra De Falco, pubblicato da CuePress e l’altro è Le sette parole di Cristo, dialogo di Riccardo Muti con Massimo Cacciari, pubblicato da Il Mulino. Due volumetti accomunati dal medesimo contesto pasquale, un caso, ma entrambi – non è un caso – spunto per interrogarsi sulla forza della parola poetica come chiave di disvelamento dell’autenticità dell’essere. Si chiede Antonio Tarantino, drammaturgo degli ultimi, autore della marginalità, ai margini egli stesso: «Il mondo, il nostro mondo, è forse quello che le parole del profeta bandito Barabba ci vengono descrivendo in questo estremo sproloquio invettiva?» Tarantino – pubblicato dalla UbuLibri di Franco Quadri – è poeta della sacralità che sta ai margini, che è tale perché concentrato di vita separata, sotterranea, nascosta. E allora Barabba – letteralmente figlio del padre – è nella sua cella, è testimone della condanna, dell’insensato martirio di Gesù Figlio del Padre. Non è un caso che Barabba si chieda: «Il mio nome?!/ quale nome?!/ gesubarabba?!/io o lui? /anche lui è un barabba! /Un gesù /tale e quale a me?!/ Ma allora io chi sono?!/ Io sono lui o lui sono me?!» Antonio Tarantino ci presenta una Barabba incarcerato, in attesa d’essere liberato, graziato e testimone del martirio di quell’altro Barabba Gesù. E, guarda caso, in questo testimoniare rabbioso e incredulo per la ricerca di quella verità: «Eccola là crocifissa, la verità, inchiodata alla croce come la farfalla dell’entomologo è fissata al suo album con tre spilli: ecco a voi la verità! Ma quale verità? La verità di sistema, quella che due più due fa quattro ma solo per l’aritmetica entro i confini dell’aritmetica». E allora viene in mente, improvvisamente come detrito della memoria, il due più due non sempre fa quattro del protagonista delle Memorie del sottosuolo di Dostoevski. E come non trovare il sottosuolo dei personaggi dell’autore dei Fratelli Karamazov nella consapevolezza del Barabba di Antonio Tarantino: «Ma è la grandezza della verità: di non vedere un palmo oltre il proprio naso: di essere derisa e insultata e rispondere ad ognuno di questi affronti con benedizioni: di morire in croce come un rivoluzionario violento ed eroico e impartire la benedizione urbis et orbis. Non è forse questo il comportamento di un pazzo? Allora la Verità è Follia!» Eppure nella rabbia e nella pochezza di questo Barabba pusillanime e gretto c’è alla fine la consapevolezza di quel sacrificio che libera, di quel sacer facere, fare il sacro che disvela un mondo altro, altro forse perché sospeso nella separatezza della parola che salva. E così il Barabba di Tarantino afferma: «Ma se lui mi ha assicurato che me la caverò allora vuol dire che ci devo credere perché è venuto qualcuno che mi ha voluto bene. Roba da matti». E allora, nel nostro errare alla ricerca del disvelamento dell’essere, la Crocifissione di Masaccio con la Maddalena che ruba la scena a Cristo e Le sette parole di Cristo nella sonata di Haydn sono il terreno del dialogo fra il filosofo Massimo Cacciari e il direttore Riccardo Muti in un volume tanto intenso quanto di facile e appassionante lettura. Si tratta di una guida all’ascolto della sonata di Haydn, ma soprattutto una riflessione dialettica sulla potenza evocativa della musica e della parola/linguaggio. In questo senso appare illuminante – per la riflessione partita dal Quem quaeritis? – quanto scrive Cacciari riferendosi a Vico: «L’uomo non nasce animale parlante; acquisisce dopo millenarie e tragiche esperienze la facultas loquendi. Prima vi è grido, suono. Poi il suono assume ritmo, misura e giunge a farsi canto. E alla fine ecco il logos. Ma la sintassi di quest’ultimo non dimentica affatto la potenza dell’origine». Il filosofo si chiede se in questo non sia l’universalità della musica, com/presa al di là delle conoscenze delle sue regole. La lingua, la parola che si fa musica, la parola che in sé porta l’eredità dell’origine, il suono, la parola che risuona, la parola che evoca. Massimo ingenium e massimo studium si coniugano nella parola di Dante, nella sua poesia che fa mondo ed è mondo. Il dialogo di Muti e Cacciari è un viaggio non solo alla scoperta della sonata di Haydn che si lega alle parole del Cristo morente sulla croce, ma è soprattutto un vademecum alla scoperta del segreto nascosto e disvelante della musica/linguaggio in cui, afferma Massimo Cacciari: «Si combinano paradossalmente il massimo di ingenium, ciò che non è generato o prodotto da studium, con il massimo di studium, ovvero ciò che hai chiamato rapimento con la ricerca della forma più astratta o autonoma rispetto all’esigenza di comunicare significati definiti, cui la lingua naturale sembra essere al servizio (non lo è neanche nella sua essenza, ma così ci appare)». Che si tratti del Barabba di Antonio Tarantino, oppure del dialogo di Muti e Cacciari sulla sonata delle Sette parole di Cristo di Haydn in relazione con la Crocifissione di Masaccio, la parola poetica, il linguaggio poetico e i poeti «dicono quella totale assenza di protezione che l’uomo tenta invano di mascherare con il calcolo e con il progetto, con la previsione e con l’anticipazione, quando non osa sporgere nell’Aperto e arrischiare sensi imprevisti», scrive Umberto Galimberti. La parola che crea, la poesia, la poiesis incarnata è parola che si concede all’Aperto, che ci impone il rischio dell’imprevisto… per questo è vertigine, è abisso, dolcissimo abisso. Collegamenti
1 Aprile 2021

Memorie dalle megalopoli, come tessuto performativo

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXIV-2

Avete mai provato, almeno una volta, la sensazione di immergervi fra le strade, nel sottosuolo di una città? Di una grande città, una di quelle con un numero di abitanti a sette o otto cifre, quelle città chiamate megalopoli nelle quali – secondo le proiezioni delle Nazioni Unite – entro il 2030 vivrà quasi il 9% della popolazione mondiale. Sono ambivalenti, le megalopoli: moltiplicatori di esperienze, acceleratori della memoria, ma anche luoghi di confusione, dove è facile disperdere il proprio sé, perdendosi. Instabili Vaganti, compagnia emiliana formata da Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno, ha fatto dell’esperienza del viaggio una cifra del proprio percorso artistico. Viaggio attraverso il mondo, dalla Corea all’India, dal Nord Europa al Messico, al Cile, all’Italia, raccogliendo esperienze, conservate nei racconti prodotti dal lavoro della compagnia insieme ad artisti e performer incontrati nei luoghi visitati. La forma è sostanza. Il metodo di ricerca fornisce il colore, il sapore, i suoni al lavoro stesso. Global City racconta un frammento del percorso di Instabili Vaganti durato circa sette anni, dalla formulazione del progetto Megalopolis (2012) alla sua evoluzione in Global City, spettacolo andato in scena al Nazionale di Genova a ottobre 2019. Compreso tra queste due date il viaggio e le sue tappe. Città del Messico, Montevideo e Malmö, Tampico e Calcutta, Shangai e Tehran, Seoul e Katmandu, ma anche i ritorni a casa a Napoli, Bologna, Cascina, in Basilicata, accumulando esperienze grazie al lavoro condiviso, per raccontare lo smarrimento e le opportunità, le contraddizioni e i luoghi comuni, lo sporco e il sommerso, le luci e i rumori che costituiscono l’aspetto quotidiano delle megalopoli, anche in contrasto stridente con la dimensione piccola e lenta dei paesi. Luoghi di disumanizzazione, distopici, contro eutopie, luoghi buoni dove un equilibrio è possibile. Nel volume confluiscono i molti materiali, riflessioni e note di regia, foto e diari di questo viaggio, coagulati alla fine nel testo-partitura dello spettacolo andato in scena a Genova, una drammaturgia mobile e stratificata come le mappe urbane.

1 Aprile 2021

Dalla Russia con amore, i Maestri del Novecento

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXIV-2

Grazie alla curatela di Fausto Malcovati, professore di Lingua e letteratura russa presso l’Università di Milano, Cue Press pubblica una preziosa collezione di autori russi da annoverare tra i maestri assoluti della prassi e della cultura teatrale. Altre due pubblicazioni si aggiungono qui alla copiosa raccolta, dedicati a Vsevolod Emilevic Mejerchol’d e a Stanislavskij.

Il primo, L’ottobre teatrale (1818-1939), è un volume pregevole, che raccoglie il contributo alla storia del teatro del Novecento, di uno dei maggiori teorici e rivoluzionari, Mejerchol’d, prima e dopo la sua adesione alle istanze della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Gli scritti teorici, suddivisi per sezioni tematiche (interventi politici, scritti sull’arte dell’attore, sulla formazione e sul ruolo del regista, scritti sulla struttura del teatro post-rivoluzionario) si affiancano ai materiali sugli spettacoli più noti da lui messi in scena. Si tratta di scritti per lo più inediti, in Italia, che, attraverso lo sguardo di Mejerchol’d generano un’emozionante cronaca in presa diretta su una rivoluzione non solo teatrale.

Il secondo libro, Stanislavskij alle prove, è il diario di scena dell’attore Vasilij Toporkov che, dal 1927, lavorò al Teatro d’Arte sotto la direzione del Maestro, prendendo parte a spettacoli quali I dissipatori di Kataev, Le anime morte di Gogol’, Tartufo di Molière. La descrizione del lavoro fatto dal regista sui testi, il resoconto delle sue parole filtrate dallo sguardo dell’attore, compongono un racconto avvincente del modo con cui Stanislavskij lavorava, da cui emerge il significato profondo dei concetti alla base del famoso ‘sistema’.

1 Aprile 2021

Totò, lo straordinario attore marionetta

Stefania Maraucci, «Hystrio», XXXIV-2

Un volto irregolare, una mimica facciale e una disarticolazione corporea fuori del comune, «un marionettismo capace di tutte le bizzarrie» hanno reso Totò icona immortale del cinema italiano. Ma il Principe della Risata mosse i primi passi da attore recitando a Napoli nelle farse a soggetto della tradizione comica tardo ottocentesca, tramandata dalle famiglie d’arte e basata quasi completamente sull’improvvisazione, una pratica teatrale che affinò ininterrottamente anche quando si misurò con le nuove forme dello spettacolo. La bella antologia Il teatro di Totò. 1932-46, curata da Goffredo Fofi e pubblicata alla fine del 2020 da Cue Press, raccoglie esilaranti sketch scritti da Totò e da lui interpretati nei varietà e nelle riviste: una preziosa raccolta di testi inediti che, sebbene poco più che canovacci, chiaramente funzionali all’inventiva e alla dilatazione mimica e verbale dell’attore, documentano, almeno in parte, il momento più autentico della sua comicità, successivamente arginata e normalizzata dal cinema. Un’arte scenica purtroppo verificabile solo nelle testimonianze di chi ha avuto la fortuna di vederlo recitare in teatro. Anche i temi presenti in questi testi, come la mancanza di danaro e la fame (La scampagnata), i travestimenti e gli scambi di persona (Totò divo del cinema), la lotta dell’uomo qualunque contro l’autorità (L’onorevole in vagone letto), per fare solamente alcuni esempi, se da un lato indicano il progressivo passaggio ad argomenti sempre più vicini alla cronaca, accompagnata da intenti di satira politica e sociale, dall’altro evidenziano un’essenzialità drammaturgica che prefigura la singolare capacità dell’attore di farsi scrittura scenica, oltre a sottolineare quella vena corrosiva e dissacrante che caratterizzerà il meglio delle sue interpretazioni cinematografiche.

31 Marzo 2021

Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, 33 svenimenti

«Qui comincia — Rai Radio 3»

Tra il 1934 e il 1935, pur all’inizio del terribile periodo della persecuzione staliniana, Mejerchol’d torna alla leggerezza del teatro di Anton Čechov, mettendo in scena tre brevi atti unici (L’anniversario, La domanda di matrimonio e L’orso): sarà l’ultimo spettacolo prima del suo assassinio.

Accomunati dal leitmotiv dello svenimento (di cui Mejerchol’d ne conta appunto trentatré), questi tre testi di mirabile comicità e dinamismo divengono nuove occasioni per veicolare un credo teatrale in cui attore, scena e testo creano un’armonica unione nella recitazione sul palcoscenico.

Il presente volume alterna gli atti unici di Čechov ai resoconti delle prove di Mejerchol’d con i suoi allievi, appunti che ci consegnano la voce e gli insegnamenti di uno dei più influenti registi teatrali del Novecento.

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23 Marzo 2021

Neorealismo. Poetiche e polemiche

Giuseppe Mattia, «Drammaturgia»

Forse la principale vexata quaestio all’interno del dibattito cinematografico italiano è quella relativa al cosiddetto periodo neorealista, capace di coinvolgere alcune tra le figure di maggior rilievo in ambito culturale, artistico e storico. Claudio Milanini, già docente nelle Università di Udine e di Milano, ha raccolto in questo ricco volume una serie di contributi da parte di critici, artisti e professionisti del settore, ma anche di rappresentanti di gruppi redazionali di riviste. L’intento è quello di offrire al lettore una vasta gamma di interpretazioni e considerazioni da più punti di vista e a diverse altezze cronologiche, mettendo a fuoco tutta una serie di complesse relazioni e incrinature tra società e protagonisti della scena intellettuale italiana novecentesca.

Nell’Introduzione Milanini parte proprio dalla «inadeguatezza del termine neorealismo a designare le esperienze artistiche attraverso cui si espresse […] il desiderio comune a molti intellettuali di contribuire alla formazione di una nuova coscienza collettiva» (p. 11). Altra questione sollevata dallo studioso è quella che investe il neorealismo nelle sue varie declinazioni: dal lungometraggio alla pittura e dalla letteratura al documentario. Proprio con la questione pittorica si apre la sezione Prodromi, con un contributo del 1942 di Renato Guttuso seguito da un profetico coevo articolo di Carlo Lizzani in cui si osserva come il pubblico fosse alla ricerca di «quanto il cinema italiano si ostina a non offrirgli: un’immagine sincera di vita» (p. 30).

Con La stagione dell’impegno il volume vira su altri interventi, vere e proprie ‘chiamate alle armi’ alla vigilia della Liberazione, da parte di autori come Cesare Pavese, Elio Vittorini e Vittorio De Sica il quale, a proposito di Ladri di biciclette (1948), dichiara di aver voluto «rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca» (p. 61). Nelle sezioni Primi bilanci interni e Sviluppi e crisi sono raccolte considerazioni e riflessioni dell’immediato Secondo dopoguerra sulle produzioni letterarie – con scritti di Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda e Carlo Levi – e cinematografiche, grazie ai contributi di Giuseppe De Santis, Roberto Rossellini e Cesare Zavattini. Quest’ultimo, ne Il neorealismo secondo me, sua illuminante relazione presentata a un convegno nel 1953, sottintende la natura trainante del movimento ed esorta il lettore-spettatore a non credere «che tutto questo laboratorio non serva anche alle altre forme di cinema» (p. 171), in riferimento a tutti i successivi autori non neorealisti.

In Autocritiche e polemiche postume Carlo Bernari e Vasco Pratolini nel 1957, a neorealismo ‘terminato’, pubblicano su «Tempo presente» le loro risposte alle (identiche) domande del poeta e giornalista Franco Matacotta, focalizzando l’attenzione sui rapporti tra realismo, politica (in particolare l’ideologia marxista) ed eventi socioculturali degli anni Cinquanta. Pratolini arriva ad affermare che l’autobiografismo del dopoguerra è il documento di una mutazione di situazioni in un processo sociale definito che «confluisce nell’esperienza del realismo» (p. 210). Carlo Cassola, nel 1958, pubblica su «Comunità» Ideologia o poesia?, un perentorio articolo sulla catalogazione letteraria in cui dichiara: «I giudizi che sono stati via via dati sui vari indirizzi letterari (neorealismo, letteratura impegnata, letteratura della Resistenza, ecc.), nonché sulle opere e sugli autori considerati di maggior rilievo, mi trovano generalmente in disaccordo» (p. 214).

Segue un’intervista del 1960 rilasciata da Luchino Visconti a Tommaso Chieretti, con un’arguta riflessione sulla concezione del ‘realismo’ e sulle sorti del movimento oggetto del presente volume. Il grande regista milanese sostiene che ritornare ai contenuti sensibili del periodo neorealista è una sorta di ripiego, di pigrizia, e aggiunge: «Non si deve nascondere dietro la realtà di ieri la scarsa aggressività verso la realtà di oggi» (p. 220).

Chiude la raccolta In morte del Realismo, contributo in versi di feroce violenza letteraria a opera di Pier Paolo Pasolini, tratto da La religione del mio tempo (1961). Il punto di forza di questa raccolta è sicuramente rappresentato dalla diversità, dall’incontro-scontro di opinioni, riflessioni e polemiche multiculturali di origini e periodi diversi, capaci di garantire al lettore un panorama vasto e poliedrico. Tutto ciò consente allo studioso e a un pubblico di non specialisti di approfondire le svariate sfaccettature del dibattito e su questa base di farsi una propria idea sviluppando un pensiero autonomo.

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22 Marzo 2021

Robert Musil, Teatro – a cura di Massimo Salgaro

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Stato dell’amore, della contemplazione, della visione, dell’avvicinamento a Dio, dell’estasi, dell’assenza di volontà, della meditazione: così è stato chiamato. Nell’immagine di questo mondo non esistono né misura, né esattezza, né scopo, né causa. Il bene e il male sono semplicemente soppressi, senza che sia necessario esimersene. E a tutti questi rapporti subentra un confluire del nostro essere con l’essere delle cose».

Ed è questo stato dell’amore che confligge con lo stato di realtà, lo status borgese, della felix Austria positivista nei testi teatrale di Robert Musil, pubblicati da Cue Press, volume a cura di Massimo Salgaro (pagine 148, 24,99 euro). Ed è questo il filo conduttore dei tre testi presentati: Preludio al mélodrame Lo zodiaco, inedito fino ad ora in Italia, I fanatici e Vinzez e l’amica degli uomini importanti.

Si tratta di tre testi non di immediata lettura, ma che raccontano con potenza «la lotta di Umo contro i pilastri della società borghese». Scrive Salgaro nella lunga e dotta introduzione: «Questa ribellione, propria di quella gioventù che si affaccia dopo la Grande Guerra sul palcoscenico della cultura occidentale, è sia la protagonista dei drammi musiliani, sia quella di una generazione di letterati che per la maggior parte erano affidati all’espressionismo e alle avanguardie».

Ed infatti il Preludio è costruito da Musil sul modello del teatro espressionista che l’autore tiene come modello, ma cerca di trascendere, di smontare. Si legge nel testo di Salgaro: «Dell’espressionismo Musil non stigmatizza solo il giovanilismo, ma l’incapacità di produrre un sapere su quello che scherzosamente ha definito il buco dell’anima. L’espressionismo aveva goffamente cercato di liberarsi dai lacci della cultura occidentale per far risuonare il proprio urlo. (…) Per Musil la ricerca del linguaggio è un atteggiamento costruttivo che non si limita alla semplice rivolta, che anzi cerca ossessivamente un contatto con la realtà quotidiana e con il sapere convenzionale».

Ed è in fondo questo che si mette in scena ne I fanatici e in Vinzenz, una sorta di scontro fra chi ha la fortuna (o la condanna?) di vivere di certezze, di un sapere scientifico tetragoni e ha tutto compreso di sé stesso e chi è invece in cerca o in balia di un altro stato, quello stato dell’amore che non conosce compromessi né sfumature e rappresenta l’alternativa alla stabilità borghese, ai codici della società civile e tradizionale. Il tema portante è quello dell’alterità «che nel Preludio è ancora inserita in un clima fiabesco e di velleitaria rivoluzione sociale, nei drammi più maturi diventa quell’altro stato che cerca il contatto con lo stato normale», osserva Salgaro. E questo accade in I fanatici in cui luogo dell’azione è una casa di campagna in cui si confrontano Thomas, un affermato scienziato, la sua bella moglie Maria, Regine, sorella di Maria, sposata con Josef e vedova di Johannes, e il ricercatore fallito Anselm. Il detective Stader, ingaggiato da Josef, dimostra che Anselm è in realtà un impostore e un seduttore che costringe Maria a fuggire con lui. A rimanere nella casa sono Thomas e Regine che si scoprono essere simili. Secondo il disegno di Musil i personaggi – che vivono interminabili confronti dialettici in un profluvio di parole – sono fanatici sognatori, ovvero apostoli di una realtà alternativa che si oppone allo stato normale.

In Vinzenz e l’amica degli uomini importanti si racconta di una donna Alfa, attorniata da uno stuolo di ammiratori, uomini beta di cui si indicano solo le professioni: politico, musicista. Si legge nell’introduzione: «Nobilitati dal proprio nome sono Barli, commerciante che minaccia di uccidersi se Alfa non dovesse consentire al loro matrimonio, Vinzenz, un ex fidanzato e amico d’infanzia di Alfa e il dottor Apulejus-Halm, il marito di Alfa. La menzogna è la vera protagonista di questa farsa».

E il potere disvelante della menzogna, una realtà altra, inventata, un po’ come quella rincorsa da ogni sognatore, abitatore di quell’altro stato che non può e non vuole sottostare alle regole delle convenzioni borghesi, alle regole della quotidianità e normalità, alle regole della causa ed effetto. Tutto questo salta paradossalmente e grottescamente nel teatro di Musil e allora quello stato d’amore può essere forse l’inconscio freudiano, è sicuramente l’autenticità di un’infanzia vissuta e ri-vissuta come l’età della libertà pulsionale. Attraverso interminabili discussioni, i suoi protagonisti descrivono ciò che l’autore ha chiamato «l’altro stato», l’utopia e il possibile: una realtà alternativa dove i criteri e il conformismo dello «stato normale», in cui tutti noi viviamo, si dissolvono. Nel teatro musiliano sembra ritrovare l’eco di quel due più due non fa sempre quattro del protagonista delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij.

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15 Marzo 2021

Edgar che avrà cent’anni nel 2021

Emiliano Morreale, Mariapaola Pierini, «Cineforum», 1

La macchina dei miti

Gli studi di Edgar Morin sul cinema, pur molto letti e citati, non hanno molto influenzato gli studi sul cinema, specie in Italia. Oggi, paradossalmente, sembrano meno bizzarri ed estranei di quanto dovessero apparire all’epoca della loro apparizione, e non a caso negli ultimi anni se ne sono avute numerose riedizioni. Il cinema e l’uomo immaginario, del 1956, e Le star, dell’anno successivo, rileggendoli, costituiscono una specie di dittico. In apparenza, il secondo sembra uno spin-off del primo; in realtà, sposta il discorso dall’antropologia alla sociologia strettamente intesa, dall’io al noi. Rileggendoli adesso, se il primo sembra riassumere mezzo secolo di pensieri sul cinema, l’altro si avventura in un ambito nuovo. E insieme, i due titoli finiscono col costruire anche un romanzo generazionale.

Figlio di immigrati ebrei di Salonicco, nato nel 1921, con un percorso accademico irregolare, Morin arriva alla cultura dalla militanza politica nella Resistenza, e il centro della sua attività culturale è proprio la ricerca di un nuovo spazio per l’engagement. Contemporaneamente, Morin è un ‘cinefago’ dall’età di dieci anni: un po’ più giovane di Bazin, un po’ più grande dei giovani turchi Truffaut e Godard, coetaneo di Rohmer, non fa distinzioni tra cinema popolare e d’autore. Quella che in un libro di memorie (La mia Parigi, i miei ricordi, 2013) chiama «la cultura popolare di Ménilmontant» (il quartiere in cui era cresciuto) è anzi la base da cui poi raggiungerà la cultura alta: dai romanzi di cappa e spada a Balzac, dal cinema popolare a quello d’essai, dalle canzoni alla ‘classica leggera’ a Beethoven. E questo si avverte nell’impostazione, ma ancor più nel tono, nella postura si direbbe, con cui lui guarda al cinema.

Le star e Il cinema o l’uomo immaginario dialogano con i libri che Morin scrive in quegli anni, ma anche con quelli che non scrive. Da un lato, lo studio su L’uomo e la morte, che gli fa scoprire «lo stupore che l’immaginario sia parte costitutiva della natura umana»; e ne Il cinema…, ricordando la genesi di quel meccanismo del doppio che fa il fascino dell’immagine filmica, affermerà, citando Max Jacob: «Si prendono i morti, si fanno camminare e questo è il cinema».

Dall’altro, il tema che permea la sua vita all’epoca ma che lui non affronta direttamente, ossia il rapporto sempre più difficile col comunismo. Come ricorderà Morin stesso: «Il 1951 segna una svolta nella mia vita. Sono integrato nel Cnrs, sono escluso dal Partito Comunista, e il mio libro L’uomo e la morte esce in libreria».

Il suo progetto di ricerca sul cinema è da ‘tirocinante’, in un’istituzione piuttosto marginale ed eterodossa, e la scelta del cinema accentua e rivendica questa eterodossia. Il libro viene progettato consapevolmente come una sorta di ‘rifugio’, mentre intorno la situazione politica mette sempre più in crisi l’autore, tra i fatti d’Ungheria e l’aggravarsi della crisi in Algeria.

Il cinema… parte da un’idea dell’autonomia dell’immaginario come qualcosa di non secondario rispetto alla realtà sociale ed economica. Reale e immaginario nascono insieme: il cinema, dice Morin, è qualcosa di assente e prossimo, nasce dalla fascinazione e dalla paura del doppio. Morin racconta la storia del cinema come trasformazione del ‘cinematografo’ in ‘cinema’, dell’attrazione da baraccone in racconto, della magia in ragione. Perché il cinema possa comunicare, la meraviglia deve venir meno, inabissarsi, e l’arte della regia, scrive Morin, è la lotta contro questa atrofizzazione (maniera squisita, vien da dire, di formalizzare l’idea della politique des auteurs, la centralità della mise en scène, la dialettica tra autore e sistema hollywoodiano). La star è allora uno dei luoghi di conservazione della magia in un cinema secolarizzato (un altro luogo in cui la magia persiste, osserva Morin con fine gusto del paradosso, è il documentario). Se il cinema crea un uomo immaginario, che è «anzitutto un doppio, anzi un’assenza», le star, dentro il cinema sono il nostro doppio ulteriore, il doppio puro, perfetto, così lontane e così vicine, nostri doppi intimi e insieme irraggiungibili. Scriverà nel libro successivo: «L’uomo da sempre proietta su delle immagini i suoi desideri e le sue paure. […] Questo doppio è detentore di potenze magiche latenti; ogni doppio è un dio virtuale».

Ma passando ad analizzare il fenomeno del divismo, esempio lampante di come il cinema fa persistere il mito nel moderno, lo studioso si troverà a dover cambiare in parte passo e metodo.

Le star ovvero il cuore del mondo

Ai tempi della sua prima uscita nel 1957 (il libro avrà poi due successive riedizioni), Le star mostra che era giunto il momento di «prendere sul serio» (così scrive lo stesso Morin) un fenomeno fino allora considerato futile, un’appendice frivola che non meritava serie considerazioni. Trattando seriamente delle star, e indagando la riconfigurazione della mitologia e della magia nella società contemporanea, Morin finisce per andare al di là dei suoi presupposti di partenza. I divi sono sì i miti della modernità – il libro è infarcito di raffronti tra la mitologia classica e cristiana e gli eroi e le eroine dello schermo – ma la suggestiva idea dell’Olimpo moderno e della sua graduale ‘profanizzazione’ è indagata attraverso un’analisi che intreccia la dimensione sociale e industriale, aprendo la strada a quelli che ora chiamiamo star studies. Se le star sono oggi al centro di pubblicazioni scientifiche e corsi universitari, se hanno piena legittimità come oggetti culturali, è in gran parte merito del pioneristico lavoro di Morin, di questo libro eccentrico e un po’ idiosincratico, dai toni pungenti, talvolta sarcastici, zeppo di folgoranti intuizioni. Morin non guarda da fuori, non demistifica snobisticamente quella pulsione moderna e arcaica al tempo stesso che è il culto delle star. È parte in causa, in quanto giovane e appassionato spettatore che, come molti altri, si è nutrito delle star come ‘idee-forza’, capaci di inserirsi e incorporarsi nella vita reale.

Per Morin, le star «vivono della nostra sostanza e noi viviamo della loro», sono «secrezioni ectoplasmatiche del nostro essere», ma sono anche perfetta espressione della logica implacabile del capitalismo moderno che le costruisce, le modella, le ritocca per renderle conformi, appetibili e consumabili. La star, in particolare quella hollywoodiana, è una merce totale perché «non c’è centimetro del suo corpo, fibra della sua anima, ricordo della sua vita che non possa essere messa sul mercato». E se la configurazione del divismo e della celebrità è mutata – e in tempi di social network e di streaming poco ha a che vedere con l’istituzione cinematografica e con i riti di cui si parla nelle Star – le intuizioni di Morin non sono relegate nel passato ma continuano a reagire con il presente. Innanzitutto per il metodo: per comprendere il funzionamento delle immagini divistiche (come poi le definirà Richard Dyer) non bastano i film, ci vogliono il contesto e soprattutto i documenti. Bisogna andare in cerca delle tracce che il divo ha lasciato, delle scie che ha generato, passando al vaglio riviste, immagini, pubblicità – materiali che infatti il libro richiama costantemente. Da questi indizi Morin ci mostra non solo le star nella loro dimensione anfibia – dentro e fuori dallo schermo –, ma indaga anche il rapporto di influenza reciproca tra il divo e i suoi personaggi, mettendo a fuoco la relazione tra pubblico e schermo. Ed è proprio da questa attenzione ai processi di identificazione e di proiezione, indagati anche attraverso i modi in cui i fan si rivolgono ai propri idoli, che Morin arriva a definire la ‘liturgia stellare’. Passando in rassegna la posta delle star e occupandosi dei rituali che riguardano le piccole o grandi comunità di ‘fedeli’, le riflessioni di Morin riguardo al carattere divino della star si illuminano grazie all’analisi dei comportamenti, troppo spesso stigmatizzati, attraverso cui il pubblico ama i propri idoli.

Pagine appassionate sulla religione del cinema, sul feticismo che porta i fedeli a collezionare immagini e reliquie, a trasformare le star in santi patroni capaci di proteggere e consolare, di dispensare consigli e raccomandazioni. Scrive Morin: «Dietro lo star system non c’è solo la ‘stupidità’ dei fan, l’assenza di invenzioni dei cineasti, le manovre commerciali dei produttori. C’è il cuore del mondo. C’è l’amore, altra stupidaggine, altra profonda umanità».

Se alcune pagine ci appaiono oggi meno convincenti – in particolare quelle in cui un po’ troppo perentoriamente si afferma la funzione puramente accessoria della recitazione – il cuore del libro pulsa ancora. E pulsano anche tutte le star – Valentino, Garbo, Cooper, Wayne, Chaplin, Crawford, Gabin, Bardot, Lollobrigida, Loren… – rievocate con fervore dalla memoria cinefila del suo autore, chiosate con l’intelligenza di chi sta dentro e fuori dal gioco, dalla voluttà intellettuale di chi parlando di divi riesce a parlare di sé e del mondo.

Oltre alla dimensione sociale, nel libro irrompe con forza quella storica. Le star ripercorre la genesi e le evoluzioni del divismo cinematografico dagli anni 10 ai 60: dalle immagini archetipiche degli eroi del cinema muto, le star-divinità, «sublimi ed eccentriche», che vivono «al di sopra dei comuni mortali», si arriva alla secolarizzazione e l’imborghesimento, a un’umanizzazione realista dell’Olimpo abitato da divi che «partecipano alla vita dei comuni mortali». Ma, tornando su queste pagine a qualche anno di distanza, per l’edizione del 1963, Morin aggiunge un tassello importante. La morte di Marilyn Monroe e, prima, quella di James Dean, gli appaiono come eventi che suggellano simbolicamente la sua riflessione. L’Occidente sta per essere scosso dalle contestazioni del ’68, il cinema cambia, Hollywood pure, e se le star continuano a esistere, la loro vita «non è più una soluzione ma una ricerca, non più soddisfazione ma sete». A questa sete e a questa ricerca Marilyn – «l’ultima star del passato ma la prima star senza star system» – non è stata capace di sopravvivere. La morte di colei che da povera e orfana era diventata l’oggetto di venerazione del mondo intero, ha colto impreparati tutti coloro, tra cui lo stesso Morin, che erano pronti ad amarla e adorarla. È il rintocco funebre, la fine dell’Olimpo che il suo libro ci aveva aiutato a vedere. E forse, retrospettivamente, Morin stesso pare accorgersi che, mentre guardava al cinema e alle star portando con sé l’entusiasmo del ragazzo cinefilo di Ménilmontant, in realtà scriveva su un crinale, fotografava la fine di un mondo e di un cinema, o almeno una loro irreversibile mutazione.