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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.
The Global City: presentazione del libro e intervista a Simona Frigerio
Raccontare il lavoro della Compagnia Instabili Vaganti significa addentrarsi nel loro mondo, cosparso della polvere del palcoscenico ma costruito su quattro continenti. Un viaggio che da Genova si sposta, nel tempo e nello spazio, rievocando sprazzi di storia – come il ’68 a Città del Messico – ma sollecitando, nel contempo, un confronto continuo con la realtà. In delicato equilibrio tra le città letterarie di Calvino e le metropoli urticanti di Ballard. Un viaggio affascinato e affascinante per scoprire come si costruisce quel perfetto meccanismo teatrale che è lo spettacolo, ma anche i pensieri e gli ideali di una coppia di artisti che ha posto al centro del proprio mestiere, altamente artigianale, la consapevolezza di esserci nel mondo.
Intervista all’autore
Come è nata l’idea di questo libro?
Dalla comune passione per il viaggio. Non la vacanza all-inclusive, bensì quell’andare in cerca di sé vagando per il mondo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà, quando si inizia un libro, sta nell’inquadrare lo specifico dello stesso. Faccio un esempio per chiarire. Se dovessi scrivere il libro su una compagnia che si confronta, attraverso uno spettacolo, con un preciso fatto storico – passato o presente – il libro si muoverebbe su binari documentali, interviste, e avrebbe il sapore del reportage o del libro di storia. In questo caso, mi sono ispirata alla letteratura di viaggio.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sono una lettrice vorace. Direi che amo la letteratura dell’Ottocento, Proust e Dostoevskij su tutti. Ma adoro anche i modernisti inglesi e, quindi, Virginia Woolf. Una mia passione è il giallo, forse in quanto mi interesso di enigmi, e anche per questo leggo assiduamente Dürrenmatt.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Da quasi dieci anni sono diventata cittadina Toscana (anche se i toscani doc non si definirebbero mai tali dato che si identificano ognuno con la propria città). Per anni ho vissuto a Milano, metropoli che non sopportavo più e dalla quale sono letteralmente scappata: io sono figlia della Milano dei Centri sociali, dell’impegno civile e politico; la Milano della moda e della ‘movida’ mi rispecchia poco. Però Milano mi ha insegnato l’etica del lavoro. E poi ho vissuto a lungo in Gran Bretagna e da vent’anni giro il mondo in lungo e in largo, tanto che considero ormai l’Oriente la mia patria d’adozione, anche se Cuba mi ha rubato il cuore.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In primis terminare il mio secondo romanzo. Ho già pubblicato due raccolte di racconti e ho scritto un romanzo giovanile che è rimasto, e rimarrà, nel cassetto. Per me scrivere è come respirare: impossibile non farlo.
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Il teatro di Totò dal 1932 al 1946 in un prezioso libro a cura di Goffredo Fofi
In questo prezioso libro a cura di Goffredo Fofi viene raccolto Il teatro di Totò (Cue Press, 269 pagine, 34,99 Euro) del periodo 1932-1946. Prima di divenire nel cinema un impareggiabile attore comico, Totò fu – negli Anni Trenta – uno dei massimi interpreti del teatro della tradizione popolare napoletana. Nel volume i lettori troveranno esilaranti sketch e scene che attingono direttamente alla «farsa urbana e sottoproletaria di Pulcinella», al genere del varietà innovato dal café-chantant, fino alla «rappresentazione comica di un certo piccolo borghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo», viene restituito lo spirito più genuino della comicità di Totò: irriverente nella satira politica (e, per questo, vittima della censura fascista), irresistibile quando ridisegna i luoghi comuni sulla napoletanità. Questi testi svelano la completezza artistica di Totò, qui in veste di assoluto mattatore della scena, lungo una variegata galleria di personaggi in cui spiccano le sue inconfondibili doti di ironica maschera.
Il curatore Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, si è occupato, tra Sud e Nord del Paese, di questioni pedagogiche e sociali. Ha inoltre collaborato con molte riviste («Quaderni piacentini», «Ombre rosse», «Linea d’ombra», «Lo straniero», «Gli asini») animando la vita culturale italiana. Malgrado la vastità delle sue pubblicazioni, la sua opera più apprezzata resta l’inchiesta su L’immigrazione meridionale a Torino (1963). Tra i suoi libri di cinema, ricordiamo le monografie dedicate a Totò (in collaborazione con Franca Faldini, con la quale ha anche realizzato i tre grandi volumi di interviste su L’avventurosa storia del cinema italiano), a Marlon Brando e ad Alberto Sordi.
Scrive tra l’altro Goffredo Fofi: «Nato nel 1898, Antonio De Curtis, in arte Totò, ha fatto le sue università recitando a Napoli nelle farse a soggetto, d’origine ottocentesca e pulcinellesca. Canovacci tramandati su copie manoscritte, più raramente stampate, e arricchiti dai ricordi dei figli d’arte: il tale a questo punto faceva questa mossa, introduceva questa battuta, si rivolgeva al pubblico in questo modo, divagava provocando la spalla su questo equivoco… Come in ogni tradizione di teatro popolare autentico, si arricchiva e trasformava di continuo una materia consolidata, regole codificate. Niente nasceva dal niente; ma le suggestioni del momento, della platea, dell’incontro tra temperamenti diversi, provocavano (e provocano tuttora, nella sceneggiata) una possibilità di variazioni assai grande, in una continua e produttiva dialettica tra vecchio e nuovo, tra fisso e mobile, tra rigido e aperto».
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Vincenzo Blasi, Teatri greco-romani in Italia
Il volume di Vincenzo Blasi è dedicato a Khaled al-Asaad, l’archeologo siriano giustiziato nel 2015 dai miliziani jihadisti per essersi rifiutato di rivelare dove fossero nascosti i tesori di Palmira, il cui teatro romano fu poi parzialmente distrutto il 21 gennaio 2017. A partire da questo tragico avvenimento l’autore esprime «l’attaccamento ad un concetto di cultura e di appartenenza che guida il lettore alla scoperta del suo passato e delle sue eterne bellezze» (così Nicola Savarese nell’introduzione, p. 7).
L’opera – «destinata alla consultazione, allo studio, all’aggiornamento, al viaggio e alla semplice curiosità» (p. 9) – si presenta come un dizionario comprendente più di duecentocinquanta voci relative a teatri greci, greco-romani, romani, anfiteatri, odea, circhi, stadi. Vi sono considerati non solo gli edifici di cui si sono conservati i reperti archeologici, ma anche quelli identificati solo su base epigrafica, documentaria o letteraria.
Simboli di tradizione e contemporaneamente esempi di innovazione, i luoghi spettacolari in Italia presentano infinite varianti estetiche e strutturali a seconda della tipologia e dell’utilizzo, dell’ambito cronologico e geografico. Sfogliando il volume emergono con evidenza somiglianze e differenze che rendono unico, anche in questo ambito, il patrimonio del nostro paese. Apprezzabile l’attenzione riservata al legame imprescindibile tra i theatra e i territori in cui sono stati costruiti e utilizzati. Il teatro e la città: un legame di lunga durata, come sappiamo.
Il testo, di facile utilizzo, si presenta articolato in lemmi in ordine alfabetico secondo la denominazione odierna o più conosciuta della località, comprendendo un breve inquadramento storico del luogo e una descrizione dettagliata dei reperti archeologici con riferimenti anche alle campagne di scavo. Alla fine di ogni sezione sono offerte immagini puntuali: fotografie recenti dei siti e piante dei monumenti. Si alternano utili schede riassuntive di teatri noti e molto indagati, come il theatron greco di Siracusa (pp. 193-196), e approfondimenti di monumenti trascurati come quelli lombardi di età romana (Bergamo, p. 42; Como, p. 60).
Segnaliamo la sintesi sul teatro e l’anfiteatro della romana Florentia (p. 79). I resti del theatron del primo secolo d.C. si trovano sotto gli attuali palazzo Vecchio e palazzo Gondi. Come evidenzia la pianta dell’edificio (p. 87), la cavea era rivolta verso piazza della Signoria, mentre la scena si snodava lungo piazza San Firenze e via dei Leoni. Nell’attuale quartiere di Santa Croce sorgeva l’anfiteatro romano (130 d.C.), ricordato per la prima volta nel 1764 da Domenico Maria Manni in Notizie istoriche intorno al Parlagio ovvero anfiteatro di Firenze. Il monumento è ancora oggi riconoscibile dall’andamento curvilineo delle vie e dalla toponomastica della zona: via Torta, via del Parlascio, dal greco perielasis, ‘girare attorno’. È aggiornata la bibliografia al riguardo (pp. 277-278).
Il catalogo, di facile lettura, è rigoroso, e presenta i termini greci e latini specifici della disciplina, spiegandoli in modo chiaro e sintetico in poche pagine introduttive (pp. 14-18). In conclusione per ogni lemma sono riportate le fonti antiche (documenti letterari, epigrafi, iscrizioni) e i riferimenti bibliografici moderni.
Nonostante il volume si ponga come prezioso strumento di consultazione per docenti e discenti, rimangono comunque imprescindibili i due regesti Censimento analitico. Teatri greci e romani. Alle origini del linguaggio rappresentato, a cura di Paola Ciancio Rossetto e Giuseppina Pisani Sartorio (Roma, Edizioni Seat, 1994, 3 voll.), e il più recente Antike Theaterbauten. Ein Handbuch (Wien, Verlag der österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2017, 3 voll) di Hans Peter Isler.
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20 lezioni su Giorgio Strehler di Alberto Bentoglio
L’esaustivo libro, pubblicato da Cue Press nella collana I saggi del teatro (393 pagine), si rivela uno stimolante saggio rivolto a coloro che desiderano conoscere ed approfondire l’opera del grande Maestro triestino. La monografia raccoglie le lezioni che l’autore, durante i mesi di lockdown dovuti all’emergenza sanitaria, ha tenuto a distanza per il suo corso di docenza sulla Storia del Teatro.
Venti lezioni che hanno approfondito il percorso artistico di Giorgio Strehler, così da fornire agli studenti un valido aiuto per la preparazione dell’esame. La maggior parte dei materiali utilizzati è conservata presso l’Archivio Storico del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Fondo Giorgio Strehler.
La pubblicazione si avvale inoltre di un apparato di immagini evocative che riportano alla mente spettacoli memorabili come Arlecchino servitore di due padroni, I giganti della montagna, La tempesta, Il giardino dei ciliegi, L’opera da tre soldi, L’anima buona di Sezuan, Vita di Galileo, Re Lear, La grande magia, Faust. Completano la monografia una interessante bibliografia del Maestro con la menzione dei volumi a lui dedicati, il teatro di regia, gli articoli di periodici e riviste, oltre ad un apparato sulla Teatrografia con un completo indice delle regie strehleriane.
L’attività didattica e di apprendimento viaggia di pari passo. L’obiettivo è un percorso votato alle esatte risorse formative fruibili di assegnazione, pensato per accompagnare e verificare i progressi durante lo studio, ma anche per informare tutti coloro che hanno amato Strehler, il Piccolo Teatro di Milano e, in generale, la Storia del Teatro che, lezione dopo lezione, spicca in tutto il suo splendore per la riscoperta nel largo catalogo di autori e di fonti seguite alla creatività di Strehler, sempre pronto ad offrire al pubblico soluzioni poliedriche, puntando ad innovazioni nel pieno rispetto della tradizione, nonché a combinazioni di assoluta genialità.
La panoramica complessiva permette così di delineare una storia contraddistinta da rapporti complessi e affascinanti, presentando memorabili allestimenti, tra i più rilevanti della scena mondiale (e altrettanto indimenticabili interpreti), messi in scena nella realtà della drammaturgia, sempre e comunque attraverso la poetica. Strehler ha fatto del suo lavoro un insieme di concetti relativi alla poesia, sia in quanto motore dell’umanità sia in quanto richiami ad esperienze letterarie ed estetiche a lui care, senza tralasciare mai tutte le altre arti.
Venti lezioni per conoscere Giorgio Strehler (1921-97) attraverso un percorso cronologico che prende in considerazione tutti gli spettacoli (teatrali e musicali) che il regista ha allestito nel corso della sua carriera. Padre fondatore del teatro di regia in Italia, Strehler, con la nascita nel 1947 del Piccolo Teatro di Milano, ha saputo tracciare nuove strade all’insegna dell’attualità culturale, dell’apertura nei confronti delle drammaturgie straniere, ma, soprattutto, della costante evoluzione di una personale poetica.
Ha dedicato la sua esistenza alla creazione e diffusione globale del ‘teatro d’arte’, quale espressione di un impegno artistico di alto profilo morale e civile, un teatro ‘necessario’ destinato a svolgere un’importante funzione di coscienza politica, sociale e culturale.
L’autore
L’autore, Alberto Bentoglio, insegna Storia del Teatro all’Università Statale di Milano dove, dal 2017, dirige il Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali. Prendendo le mosse dagli ultimi decenni del Settecento, Bentoglio ha approfondito la ricerca sul panorama teatrale italiano fino all’Unità d’Italia. Ha inoltre studiato l’organizzazione dello spettacolo dal vivo, in particolare della realtà milanese, con riferimento al magistero di Grassi e Strehler.
Fra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’arte del capocomico: biografia critica di Salvatore Fabbrichesi (Roma, Bulzoni, 1994); Antonio Colomberti, Memorie di un artista drammatico (Roma, Bulzoni, 2004); Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello per Giorgio De Lullo (Pisa, ETS, 2007); L’attività teatrale e musicale in Italia (Roma, Carocci, 2007); Antonio Colomberti, Dizionario biografico degli attori italiani (Roma, Bulzoni, 2009); Il Teatro dell’Elfo (1973-2013) (Milano, Mimesis, 2013); Milano, città dello spettacolo (Milano, Unicopli, 2014).
Le edizioni Cue si trovano ad Imola (Bo). Alla fine del 2012, intorno a Mattia Visani, ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, nasce la prima casa editrice ‘digital first’ interamente dedicata alle arti dello spettacolo.
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In forma di quadro. Note di iconografia teatrale
«L’iconografia teatrale è una delle grandi questioni irrisolte della storiografia sullo spettacolo» (p. 11). È questo l’assunto di partenza del recente volume di Renzo Guardenti: una raccolta di saggi scritti nell’arco di quasi vent’anni dedicati ai temi e ai problemi legati all’utilizzo delle immagini come fonte per indagare e comprendere le arti della scena. A cominciare dalla loro doppia natura: da una parte di oggetto artistico autonomo – con un proprio linguaggio e con proprie regole e tecniche –, dall’altra di sedimentazione visiva delle pratiche performative. Monumenti e documenti, per utilizzare una nota endiadi concettuale di Jacques Le Goff. Forse anche per sfuggire a questa loro complessità le testimonianze iconografiche sono spesso utilizzate come mere illustrazioni, quando non ignorate da un campo di studi in cui è ancora fortemente radicato un pregiudizio testocentrico ormai anacronistico. Le immagini di teatro hanno invece un’importanza primaria per la storia dello spettacolo: tramandandone la dimensione visiva, consentono «di perpetuare la memoria di forme artistiche che, in virtù del loro carattere effimero, rischierebbero di essere relegate nell’ambito della parola, del discorso, del testo scritto» (ibid.).
Se quella tra arte e spettacolo è destinata a essere una «partita senza fine», come l’ha definita Sara Mamone (Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese [XV-XVII secolo], Roma, Bulzoni, 2004), essa ha trovato nei lavori della scuola fiorentina un proficuo cantiere di studi che, avviato da Cesare Molinari e Ludovico Zorzi rispettivamente negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è stato portato avanti con profitto dai loro allievi – lo stesso Guardenti, Mamone e Stefano Mazzoni in primis – secondo due linee di ricerca che l’autore definisce «assolutamente parallele e per certi aspetti divergenti» (p. 12), ma che ritengo piuttosto complementari. La prima si è orientata verso la ricostruzione storico-filologica delle diverse forme dello spettacolo attraverso la messa in luce degli elementi e dei processi che hanno portato alla costituzione dell’opera; la seconda ha privilegiato la definizione delle diverse idee e prassi di teatro e di quel complesso sistema di relazioni tra committenti, realizzatori e fruitori che è alla base del fare spettacolo.
Entrambe hanno portato gli studiosi a interrogarsi su quelle che sono le radici profonde delle discipline teatrali e sul loro statuto metodologico, compreso il modo in cui relazionarsi con le fonti iconografiche. Ne è emersa la necessità di articolare questo tipo di reperti in coerenti e organiche tipologie documentarie che permettano la loro catalogazione e una più facile fruizione anche attraverso appositi archivi digitali. Tra questi non si può non segnalare Dionysos, promosso dal dipartimento di eccellenza SAGAS dell’Università di Firenze sotto la direzione di Guardenti: oltre ventiduemila immagini riferibili al teatro e allo spettacolo dall’antichità classica alla prima metà del Novecento schedate sulla base di criteri che privilegiano la teatralità del documento.
Tale archivio di iconografia teatrale, al pari del volume che qua si presenta, è parte degli esiti scientifici di una linea di ricerca da tempo portata avanti da Guardenti e volta a indagare non solo i rapporti tra teatro e arti figurative, ma anche il valore testimoniale della documentazione iconografica a vario titolo riferibile alle arti dello spettacolo nonché le possibilità di impiego di tali documenti nell’ambito di ipotesi ricostruttive di forme spettacolari, prassi sceniche e recitative. Si tratta di riflessioni fondanti per la storiografia teatrale che vedono una loro applicazione pratica nei dieci capitoli del libro in cui sono approfonditi momenti chiave della storia del teatro e dello spettacolo europeo lungo una diacronia che va dal Seicento al Novecento.
Dopo alcuni imprescindibili premesse metodologiche (capp. 1-3), con un focus sull’importanza delle riviste teatrali, spesso trattate «con aristocratico disprezzo da certi settori delle discipline dello spettacolo» (p. 31), Guardenti analizza l’iconografia della Commedia dell’Arte con una particolare attenzione all’area francese, alle attrici e alla musica, elemento consustanziale del fare teatro (capp. 4-7). Attraverso selezionati esempi lo studioso ricostruisce poi le pratiche attoriche tra Sette e Novecento e i loro riflessi figurativi, anche tramite un’icona quale Sarah Bernhardt, una tra le attrici che ha saputo meglio sfruttare le potenzialità promozionali dell’immagine (capp. 8-9). Infine si sofferma sulle prime regie viscontiane analizzandole a partire dalle foto di scena (cap. 10). Il percorso si chiude, e non poteva essere altrimenti, con una selezionata suite di oltre centocinquanta immagini.
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Quando le pièces di Strehler si «scoprivano» in altri teatri
Non molti sanno che il nonno e il padre di Strehler fossero stati impresari e organizzatori del Politeama Rossetti, del Verdi e della Fenice di Trieste. Tutti sanno che la mamma era una celebre violinista che, per lavoro, si era dovuta trasferire col figlio Giorgio a Milano, dove il ragazzo di appena sette anni comincerà a conoscere la lingua meneghina che alternerà con quella tedesca, francese e col dialetto triestino. Milano diventa la sua patria di adozione. Studierà al liceo Parini e imparerà dizione, recitazione e cultura teatrale insieme a Franco Parenti all’Accademia dei Filodrammatici, da dove uscirà con la medaglia d’oro perché ritenuto l’allievo: «più ricco di risorse drammatiche, di slancio, di colore, di autorità».
A Milano Strehler sposerà la ballerina Rosa Lupo e comincerà a recitare insieme a dei mostri sacri come Annibale Ninchi, Gualtiero Tumiati, Camillo Pilotto, Maria Melato, Marcello Giorda. La sua formazione giovanile era venuta a contatto con la tradizione del Grande attore, quello del teatro «all’antica italiana». Imparerà, così, a girovagare nei vari teatri della penisola. Sempre a Milano conoscerà Paolo Grassi, con cui collaborerà al Circolo Diogene di via Brera e alla Sala Sammartini di via del Conservatorio, dove, insieme ad altri artisti, i Dioscuri, si impegnarono a rifondare il teatro milanese che viveva una situazione di immobilità. Nel 1945 inizierà la sua attività di regista con una serie di spettacoli al Teatro Odeon, al Lirico, al Nuovo, fino al 1947, anno della fondazione del Piccolo, nel quale, durante la prima stagione, metterà in scena ben 6 spettacoli. L’anno dopo, in un convegno organizzato da Grassi alla Casa della Cultura, Strehler inizierà a lanciare gli strali contro lo Stato, accusandolo d’inerzia e invocando la nascita di un teatro nazionale, essendo il Piccolo nato come teatro comunale; evidenzierà la situazione grama della regia in Italia, sottomessa alle esigenze dei capocomici, che la ritenevano marginale, tanto da mettere in difficoltà i giovani registi, i quali non potevano vantare diritti e dovevano accontentarsi di paghe da fame.
Mattia Visani ha appena pubblicato, per Cue Press, in occasione del centenario della nascita di Strehler (1921), un volume di Alberto Bentoglio, docente di Storia del teatro all’Università Statale di Milano, dal titolo 20 lezioni su Giorgio Strehler, certamente il più completo, all’interno di una bibliografia già abbastanza vasta sul regista triestino, un libro che ha un preciso scopo didattico, perché destinato agli studenti, ma valido per tutti coloro che vogliano conoscere l’avventura del nostro più grande regista. Bentoglio invita il lettore alla conoscenza del lungo percorso strehleriano, sia nel teatro di prosa che in quello operistico, arricchendo i suoi studi con nuovi documenti. Il percorso è molto accidentato, fatto di sfide continue, condivise con Grassi, per liberare il teatro milanese dallo stallo in cui viveva, per renderlo un servizio pubblico, oltre che una necessità collettiva che abbisognava di una fusione tra arte, politica e organizzazione per l’avvento di una nuova civiltà teatrale che nascesse anche dalla aggregazione di nuove classi sociali. Durante i primi anni, i problemi da risolvere furono tanti, a cominciare da quelli economici, ma la ditta Grassi-Strehler riuscirà sempre a superarli. Bentoglio analizza gli spettacoli, trasportando il lettore dagli anni del realismo poetico, quelli legati a L’albergo dei poveri, alla prima edizione dei Giganti della montagna, a Le notti dell’ira, a Casa di bambola, dove il grido di rivolta di Nora coincide con quello di Strehler. Si tratta di un repertorio vastissimo, dato che, in un anno, egli era capace di curare la regia di ben 10 spettacoli, alternando prosa e opera lirica alla Scala e rinnovando i canoni tradizionali del mettere in scena. Bentoglio si attarda sui grandi eventi, quelli di spettacoli memorabili come La Tempesta, Re Lear, Il Campiello, El nost Milan, Galileo, L’opera da tre soldi, Il giardino dei ciliegi, Come tu mi vuoi, La grande Magia, Faust e altri. Le sue regie rinnovavano i testi, tanto da renderli suoi, perché era capace di scoprire significati nascosti ai loro stessi autori. In verità, Strehler scriveva dei «saggi» sul palcoscenico, svelava i misteri della creazione, eppure, diceva, che la sua metodologia era caratterizzata da «fatti tecnici» e dalla «concretezza dello spazio».
A conclusione dell’ultimo capitolo, Bentoglio riporta alcune parole di Ronconi, dedicate al Maestro, pur con la consapevolezza che il loro modo di fare teatro fosse diverso, perché entrambi avvertivano la necessità di: «difendere il teatro dalla volgarità imperante». Tra i due non c’è mai stata contrapposizione, come qualcuno sosteneva, ma consonanza di idee.
Titina: l’artefice magica dei De Filippo
«Sebbene Filumena Marturano sia stata allestita in molti teatri stranieri e abbia avuto in Italia altre non meno brave attrici, la vera immagine della protagonista rimane indissolubilmente legata alla sua prima, grande interprete che si preoccupò di rendere la persona di Filumena creatura di vita, personaggio reale ed umano, contribuendo a personificare sulla scena uno degli aspetti più dolenti di una Napoli specchio di una società sciagurata di cui Eduardo aveva voluto ricordare resistenza».
Così conclude il capitolo dedicato all’analisi del personaggio più significativo e solidamente storicizzato del Teatro Napoletano della seconda metà del Novecento, di cui fu interprete Titina De Filippo. L’attrice – perno femminile del trio di famiglia con Eduardo e Peppino –, scomparsa prematuramente nel 1963, è oggetto di un lungo, approfondito studio firmato Simona Scattina, ricercatrice di Discipline dello Spettacolo presso il dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, pubblicato col titolo Titina De Filippo. L’Artefice magica presso l’Editrice Cue Press di Imola.
Il lavoro privilegia – tra le molte fonti consultate – la documentazione esistente presso la Biblioteca della Società di Storia Patria di Napoli raccolta nel Fondo Carloni, di recente acquisizione, che comprende l’Archivio personale di Titina e di suo marito, l’attore Pietro Carloni. L’apertura alla consultazione di questo Fondo, reso pubblico per volontà dei familiari dell’attrice, colma la lacuna aperta dal ritiro dell’Archivio di Eduardo ad opera degli eredi del drammaturgo. Questo era stato a suo tempo ordinato e catalogato, così come è avvenuto per il materiale di Titina, da Claudio Novelli presso la Biblioteca di Storia Patria, poi trasferito presso la sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale. Dopo la revoca dell’affido è ora di pertinenza della Fondazione De Filippo, ma non si hanno indicazioni su dove concretamente si trovi e sulla possibilità di consultazione da parte degli studiosi.
La ricostruzione della vita artistica e familiare di colei che, rispetto a Eduardo e Peppino ebbe – secondo quanto la loro mamma Luisa sovente diceva – ‘na furtuna piccerella, parte dalle prime esperienze avviate, come tradizione delle famiglie di teatranti, dai ruoli di adolescenti e quelli del teatro minore – il varietà, la sceneggiata – sino alla determinante esperienza nella storica compagnia Molinari, stabilmente operante tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento al Teatro Nuovo sopra Toledo, all’interno della quale per la prima volta si riunirono, ad iniziativa di Titina, i tre fratelli sotto l’etichetta «Ribalta gaia». Il filo conduttore che arriva in crescendo fino a Filumena, il «ruolo della vita» dell’attrice, passa attraverso i personaggi portati in scena nella prima e nella seconda fase dell’epopea teatrale dei De Filippo – prima in tre, poi in due -, quando cioè il «Teatro Umoristico» di Eduardo e Peppino, ma anche di Titina – autrice di commedie di successo, come Quaranta, ma non li dimostra -, divenne «Il Teatro di Eduardo» per l’affermazione completa dell’autore e della sua drammaturgia. Personaggi brillanti, umoristici, patetici, in una recitazione talmente fusa con i fratelli, da far dire a qualcuno che quei tre fenomeni fossero in realtà un attore solo. L’indagine riesce a recuperare l’unicità delle qualità attoriali di Titina, catalizzatrici di quella fusione, che esploderanno in Filumena proprio nell’incontrare un testo dichiaratamente scritto per lei, che la libera da quelle funzioni costantemente esercitate nel corso della carriera.
L’opera di Simona Scartina attraversa le testimonianze della critica, ma anche i rapporti personali e formativi dell’attrice con i fratelli, in modo particolare con Eduardo, la vita familiare e l’attività artistica complementare di Titina, il cinema, la pittura in collage, le sceneggiature dei film, le poesie. E, a differenza della maggioranza dei testi d’impostazione scientifica, il libro presenta una vena narrativa accorata e partecipe, anche attraverso la particolarità delle ricchissime note, niente affatto limitate alle precisazioni nozionistiche, ma che spaziano nell’approfondimento anche emotivo di circostanze e personaggi. Ed un preciso indice dei nomi guida facilmente la consultazione per una ripresa mirata del volume, che merita però di essere letto subito e di fila come un romanzo di vita vissuta nel magico e misterioso mondo del Teatro.
Giorgio Strehler: cuore, pancia, cervello e sesso
È sempre l’ora di un centenario: l’anno scorso è stato ricordato Federico Fellini, mentre Gianrico Tedeschi e Franca Valeri ci hanno pensato da soli a soffiare sulle candeline del 2020; nel 2022 ci saranno Pier Paolo Pasolini e Ugo Tognazzi e nel corso del 2021 ci sono anniversari intestati a grandi personalità come Leonardo Sciascia, Gianni Agnelli, Alida Valli, Nino Manfredi. E il 14 agosto sarà il turno di uno dei più grandi registi del mondo, Giorgio Strehler, leonino come la sua data di nascita. Con lui, fondatore con Paolo Grassi nel 1947 del Piccolo Teatro di Milano, il teatro è divenuto pubblico, d’arte, per tutti, con spettacoli memorabili in tutto il mondo: Shakespeare, Brecht, Pirandello, Goldoni, Čechov, oggi li vediamo con i suoi occhi. Con lui, Luchino Visconti, Orazio Costa, Luigi Squarzina, Massimo Castri, e poi Luca Ronconi — un genio che ha diretto il Piccolo per vent’anni nei modi opposti al fondatore — abbiamo scoperto quanto è importante il regista.
A cent’anni dalla nascita triestina e a 23 dalla morte la notte di Natale del 1997 a Lugano, mentre sono già cominciate le celebrazioni e stanno per uscire due volumi — 20 lezioni su Giorgio Strehler di Alberto Bentoglio (Cue Press) e Il ragazzo di Trieste di Cristina Battocletti (La nave di Teseo) — Andrea Jonasson, grande attrice di formazione tedesca, moglie primadonna di Strehler, lo ricorda in esclusiva per «la Lettura».
Andrea, come passerà il 14 agosto 2021?
Parlando con lui, con Giorgio, come faccio tutti i giorni, con un bel mazzo di gigli bianchi e margherite che gli piacevano tanto.
Che pensieri le suggerisce la data?
Che Giorgio odiava invecchiare: voglio vivere in piena forma fisica e artistica, non su una sedia, diceva. Non desiderava arrivare a cent’anni, magari sarebbe diventato un grande saggio, un uomo del mare fermo su una barca.
Strehler è stato dimenticato?
Temo di sì, un po’. I tempi sono molto cambiati. Da anni non lavoro in Italia e quindi non lo so, ma qui in Austria si sente parlare poco di lui, a meno che non lo faccia io.
Qual è stato il suo più grande insegnamento?
Libera la tua fantasia, sbaglia, continua a dubitare, usa anche la leggerezza. Difficile raccontare un genio.
Che debito abbiamo con lui?
Faceva un teatro comprensibile a tutti: una sera il fisico Carlo Rubbia, il Premio Nobel, ci disse che vedere le prove di Strehler era meglio che guardare le stelle.
Com’è stato vivere con lui?
Miracoloso, bellissimo, difficile per le rinunce, ma la vita con lui era sempre magica.
I momenti più magici?
Tutti erano ‘più’. Era meraviglioso vivere con un grande, temevo di non essere alla sua altezza. Era magia vedere le sue prove, era un’avventura recitare diretta da lui.
Come fu il vostro incontro a Vienna nel 1972?
Recitavo Botho Strauss e Giorgio era venuto per il cast del Gioco dei potenti. Mi fece chiamare, scesi la scala per raggiungerlo e si complimentò per il vestito nero: guai, disse, mettere un abito a fiorellini o le scarpe rosse, non saranno mai in scena con me. Poi raccontò in due minuti chi sarei stata nello spettacolo, la regina Margherita, e rimasi senza parole. Mi affidò la parte e se ne andò.
Quant’è stato brutto l’ultimo periodo di lontananza?
Nessun commento. Posso solo dire che nessuno è incolpevole.
Riusciva a sdoppiare il ruolo di moglie e attrice?
Assolutamente. Lui si scusava se qualche volta era duro, durissimo, diceva che lo faceva per gli altri colleghi, voleva far capire che non faceva differenze. Era severo ma sempre e solo per amore. Amava gli attori, non era un tiranno. Aveva il nervosismo di van Gogh quando non trovava il giallo giusto per i suoi fiori; allo stesso modo Giorgio cercava una luce, un’intonazione, una pausa.
Che spettacolo ricorda con nostalgia?
Il gioco dei potenti a Salisburgo perché alle prove un giorno si mise alle mie spalle di regina e mi disse: ich liebe dich, ti amo, ti amo, ti amo. Credevo di svenire.
In che cosa non è stato capito?
Era comprensibile per tutti. E tutti l’hanno capito.
Chi sono i suoi allievi?
Sono morti, quelli bravissimi come Patrice Chèreau e gli altri. C’è solo Lluís Pasqual suo allievo, ma credo che oggi nessuno dica che vuole fare uno spettacolo alla Strehler. Penso che ci sia ancora molta invidia.
Quale fu la serata peggiore vissuta con lui?
Quando ricevette un avviso di garanzia, una questione burocratica sui finanziamenti del teatro. Era ingiusto, infatti fu assolto, ma fu terribile. Lui voleva morire: la notte in cui portarono l’avviso eravamo tornati da una serata per i Mémoires di Goldoni a Pavia con laurea…
E quella migliore?
Ma caro… Sono tante le serate migliori. Per me la prima dell’Anima buona di Sezuan, in italiano, ed era una battaglia vinta. E quando, dopo le prime, si tornava a casa, aprivamo lo champagne e lui diceva: glielo abbiamo messo nel c… anche questa volta. Ma no, non scriverlo.
Useremo i puntini… E le gite in mare?
Dopo i debutti si chiudeva come un orso in una tana in silenzio, al buio, anche depresso. Poi si andava al mare e ci saltava dentro come un pesce: un giorno avevamo in barca un modellino dei Mémoires di Goldoni con piccole candeline accese, e a un certo punto prese fuoco. Io ci buttai il mare per spegnerlo ma rimase un modellino incenerito: ora so — mi disse — come inizio lo spettacolo, con Goldoni vecchio che guarda lo scempio del teatro che andò davvero a fuoco.
Cosa le sarebbe piaciuto interpretare con lui?
Prima della terribile notte del 1997 mi disse: finito il Così fan tutte, ti giuro che torno a Milano, e iniziamo a fare un Antonio e Cleopatra vecchi, anche se notai che avevo 22 anni meno di lui. Se ne andò a Lugano perché io in casa avevo le mie sorelle per Natale e non ci stavamo tutti. Disse: torno dopodomani e parliamo del futuro.
Che cosa le ha mostrato di Milano?
Aveva poco tempo, studiava o provava, ma mi ha mostrato la bellezza dei giardini di Milano, che non è affatto una città grigia. E mi ha portato a vedere L’ultima cena di Leonardo, una sera, noi, solo noi.
E poi c’era Paolo Grassi…
L’ho sempre visto insieme alla moglie Nina Vinchi, la segretaria generale del Piccolo, si dicevano cose carine tra loro. Giorgio lo prendeva in giro per l’erre moscia.
Come giudica i vent’anni di Ronconi al Piccolo?
Era un grande, ma l’opposto totale di Strehler, perché Luca era un intellettuale, un po’ cervellotico, mentre Giorgio sosteneva che un regista deve avere cuore, pancia, cervello e sesso.
Chi sono i suoi amici del Piccolo?
Non ci recito da dieci anni, ormai ho pochi contatti, i grandi amici sono morti; sento ogni tanto Ornella Vanoni che mi diverte, Giulia Lazzarini, Franca Nuti e Giancarlo Dettori…
Chi l’ha avvertita della disgrazia la notte di Natale?
Mamma mia. Parlare di questo mi fa troppo male. Non posso. Fu l’autista che mi suonò alla porta di via Medici, ma davvero ricordare fa troppo male. Pensai che non era vero, che era uno sbaglio, perché se invece fosse stato così, allora la mia vita sarebbe finita. È stato così…
Come ricorda i funerali di Strehler con la folla, quasi l’isteria degna di Rodolfo Valentino?
Vero. Ero sotto choc. Ma sentivo un amore immenso da ogni balcone, da ogni finestra; era tutto incredibile.
Come vivrebbe oggi Giorgio?
Male. Malissimo. Non lo vedo alle prese con il digitale, un gigante come lui avrebbe potuto stare a riposo e da solo? Forse si sarebbe messo a scrivere, ma diceva sempre che non voleva scrivere di sé perché non sapeva spiegare il segreto dell’ispirazione delle sue regie. Di sicuro amava la platea piena e non una sala virtuale.
Quando le viene in mente Strehler?
Sempre e soprattutto quando mi annoio a teatro, cioè quasi sempre. Da mattina a notte mi è sempre accanto, gli parlo, con lui non mi sono mai annoiata. Lo penso con gratitudine, per avermi regalato 24 anni di avventure di teatro con pazienza e amore.
Lo sogna?
Ogni tanto, ed è sempre agile, di corsa, bello, scappa da una parte all’altra come da vivo. Una notte ho sognato che stavo entrando in un aereo con l’urna delle sue ceneri ma dentro c’era il profumo che usava lui alla lavanda. Giorgio alle mia spalle mi diceva: sono qui.
Cosa rimpiangeva di non aver fatto in teatro?
L’Amleto. Voleva farlo con lo spettro del padre dentro il corpo di Amleto, come uno sdoppiamento, un dialogo con sé stesso. E poi naturalmente la vita di Goldoni.
Esiste un nome per il suo stile?
Teatro umano, comprensibile a tutti, moderno e antico. Diceva sempre di voler essere fedele ai suoi autori.
Com’è cambiato il teatro in questi anni?
Oggi il teatro è spesso noioso, tradisce invece molto gli autori, il regista stravolge come m’è capitato vedere con Strindberg e Ibsen. E si usano troppi video.
Giorgio era davvero un monaco del palcoscenico?
Direi di sì. Si chiudeva nel buio, pensando e soffrendo. Ed era davvero un monaco, viveva una grande solitudine dal fondo della quale poi creava, in cui s’ispirava.
A chi voleva bene?
A tutti i suoi attori, ai tecnici, a tutti, compresi i pessimi. Voleva bene al mondo. Questo esprimeva con il suo teatro che era un atto d’amore.
Il suo rapporto con le donne?
Adorava le donne, era innamorato, era un uomo vanitoso, amava l’idea che le donne lo amassero. Io non ero troppo gelosa, ero orgogliosa perché mi piaceva avere un uomo che affascinava le altre.
Qual era l’arma di seduzione di Strehler?
L’arma? La vivace saggezza, l’umore, il temperamento, il suo buon profumo selvatico al rosmarino oggi scomparso.
Il più grande rimpianto?
Non avere avuto figli, lui diceva che il figlio era il Piccolo. Se avessimo avuto una figlia Giorgio avrebbe voluto chiamarla Ombra, che oggi è la mia cagnolina.
Il corso monografico in Statale diventa un libro per i 100 anni dalla nascita: «Il suo non fu il teatro del principe ma un teatro umano»
Il teatro? Uomini che si mettono insieme per salvarsi l’uno con l’altro. Parola di Giorgio Strehler, che torna protagonista nel centenario della nascita ben oltre il dovere della ricorrenza. Nelle aule universitarie, per esempio, che saranno anche virtuali a causa della pandemia, ma si scaldano comunque al cospetto del gigante della regia del Novecento. Certo, bisogna saperlo raccontare, Giorgio Strehler, a questi post-millennials che non hanno mai visto un suo spettacolo dal vivo. L’ha fatto Alberto Bentoglio, docente di storia del teatro in Statale, con un corso monografico, diventato anche un libro, 20 lezioni su Giorgio Strehler (Cue Press). Quattrocento pagine ad alta densità, volume corposo, strumento di studio, lettura godibilissima e bussola preziosa per orientarsi lungo le rotte di una smisurata avventura artistica.
Bentoglio, Strehler fa breccia anche nelle nuove generazioni?
Direi proprio di si. Questo libro raccoglie e amplia le lezioni che ho tenuto l’anno scorso, durante il primo lockdown che ci ha costretto a ripensare la didattica nella forma a distanza. Punitiva per certi versi, ma tutta da esplorare per altri. Con possibilità interessanti, per l’esempio l’integrazione sistematica di immagini e di video. Ha funzionato, gli studenti hanno risposto bene. Dirò di più. Ho avuto la netta impressione che Strehler abbia aiutato sia me sia loro a superare lo sconforto di questi mesi dandoci lo slancio per non soccombere alla desolazione.
Che cosa ha colpito di più i suoi studenti?
Credo la sua figura di personaggio scomodo, controcorrente. Lo spirito critico, l’irrequietezza che gli impediva di non accontentarsi spingendolo a cercare sempre qualcosa di più e di più difficile. Anche a costo di sbagliare. Si sono molto appassionati al Faust, cosa che non mi aspettavo. E invece in quell’avventura faticosissima e impossibile hanno trovato la lezione di un grande coraggio.
Personalità carismatica e tempestosa.
Una vera star. Per decenni protagonista della vita teatrale, culturale e politica, fotografatissimo, inseguito dalla stampa, anche quella rosa, in quanto uomo molto amato che amò molte donne. Fu al centro di polemiche, alcune davvero spiacevoli, ma non c’era giornale, dal più reazionario al più progressista, dal più colto al più frivolo, che non si occupasse di lui.
Contrariamente a Ronconi, Strehler era un grafomane. Ha lasciato centinaia di pagine di note di regia.
Una mole straordinaria di documenti, conservati nell’archivio storico del Piccolo, una risorsa preziosa. Strehler costruiva le sue visioni attraverso la scrittura. Scriveva molto bene, era affascinante, ancorato a una cultura vasta quanto solida. I suoi appunti e le sue note in parecchi casi sono dei veri e propri saggi, anche per quanto riguarda il teatro musicale. Le sue regie hanno spesso anticipato riletture critiche e teoriche di autori e opere. E andrebbero ripresi anche i suoi interventi politici. Quelli sull’Europa, soprattutto.
Cento anni dalla nascita. Come sfruttare questo anniversario?
Come un’occasione di approfondimento critico, bibliografico e scientifico. Credo che il punto sia interrogarsi non tanto su che cosa ha fatto Strehler ma su che cosa è rimasto del suo magistero. È ancora valido o è un’esperienza magnifica ma conclusa?.
Lei come risponde?
Il discorso è complesso, ma direi che la sua idea di rapporto con l’attore, quel modello didattico di educazione teatrale, oggi non sarebbe proponibile. Come è vero che, con il Novecento, possiamo considerare morto il teatro di regia dei grandi maestri.
Dunque che cosa resta di Strehler?
Il Piccolo e quell’idea di teatro come bene pubblico su cui l’ha fondato con Paolo Grassi. Per quell’idea ha combattuto da eroe del Novecento, senza mai ammainare la bandiera, da uomo uscito dalla Resistenza. Con risultati alterni, ma con grande coerenza, anche politica. Soprattutto etica. Il suo non è stato affatto il teatro del principe. Al contrario, un teatro umano.