Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

25 Giugno 2021

Memoria Ustica. Quarantun’anni fa la strage. In un libro le interviste agli artisti che non hanno mai smesso di interrogarsi

Massimo Marino, «Corriere di Bologna»

Gli anni passano, scorrono gli anniversari, ma la voglia di conoscere la verità non viene meno. L’anno scorso la cifra era tonda: quarant’anni dalla strage di Ustica, quest’anno sono quarantuno. Il 27 giugno 1980 cade un Dc-9 dell’Itavia con ottantuno persone a bordo. Non si tratta di «cedimento strutturale» né di esplosione interna: la verità, accertata giudizialmente ma ancora non riconosciuta in modo ufficiale, è che un aereo civile fu abbattuto nel corso di un’azione di guerra tra velivoli di diverse nazioni, alcune alleate dell’Italia. E che sul fatto fu stesa una cortina fumogena di silenzio.
In questi anni lunghi quanto la vita di un uomo maturo, l’Associazione dei parenti delle vittime, guidata da Daria Bonfietti, si è sempre battuta per la verità, per sensibilizzare l’opinione pubblica e per dare una dimensione al dolore. Lo ha fatto con battaglie giudiziarie, ma anche ricorrendo alle testimonianze e alle invenzioni delle arti, con rassegne di teatro, installazioni, concerti, serate dedicate alla poesia nella notte delle stelle cadenti. Caparbiamente ha voluto che intorno a i resti dell’aereo, recuperati dal fondo del mare, sorgesse il Museo per la memoria di Ustica, con l’installazione di Christian Boltanski. Da quando il Museo è attivo, davanti all’edificio, nel Parco della Zucca (via di Saliceto 3/22) si svolge ogni anno una rassegna dedicata alle arti. E anche quest’anno, fino al 10 agosto, si snoderà con spettacoli, concerti, incontri, a partire dall’installazione Battaglia aerea di Petri Paselli oggi, per proseguire con i danzatori Ginevra Panzetti e Enrico Ticconi, e poi con Ottavia Piccolo, Marco Paolini, Enrico Rava e Andrea Pozza, per concludersi con la serata di poesia di San Lorenzo a cura di Anna Amadori e Francesca Mazza. E dato che la memoria ha bisogno continuamente di essere coltivata per non deperire, intanto Andrea Mochi Sismondi, una delle anime, con Fiorenza Menni, di Ateliersi, ha raccolto oltre 50 testimonianze in un bel libro principalmente costituito di interviste, Il segno di Ustica, edizioni Cue Press. Sarà presentato nel Parco della Zucca il 15 luglio, in collaborazione con l’Istituto Parri. «L’incontro con la strage di Ustica è una di quelle esperienza che sono in grado di cambiare la prospettiva attraverso cui guardi il mondo», confessa l’autore nell’introduzione. Con la consapevolezza che lavora su «un fenomeno ancora completamente in corso», nel 2018 inizia il percorso che lo porterà al volume, attraverso «conversazioni con artisti e pensatori intorno alle motivazioni, alle esperienze e alle riflessioni nate dal lavoro sulle opere» presentate negli anni. E così nasce questo libro, che parte con un dialogo con Daria Bonfietti, si sviluppa con una descrizione del Museo, un’intervista a Boltanski, un’analisi con la semiologa Patrizia Violi di come l’attività artistica può ridefinire la percezione della strage, con interventi di Roberto Grandi e Maura Pozzati, e quindi intervista gli artisti che dal 1992 hanno creato spettacoli sulla strage o partecipato alle rassegne o fatto foto come Nino Migliori: da Marco Paolini e Giovanna Marini a Virgilio Sieni e Simona Bertozzi, a organizzatori come Ruggero Sintoni e Cristina Valenti, ai registi della serata di poesia, da Mariangela Gualtieri e Vetrano-Randisi a Paolo Billi.
Il libro sottolinea come l’arte sia un’importante sostituzione dell’esperienza del cordoglio, dato che il luogo della strage, tra i cieli e gli abissi del mare, non si può visitare. E allora, su quell’idea di volo spezzato, di caduta, di violenza, di «insepoltura» è l’immaginario a fornire fili per configurarsi l’inimmaginabile. Sottolinea la necessità di trasformare il dolore e la coscienza individuale in narrazione e consapevolezza collettiva, continuando a denunciare depistaggi e silenzi. Il volume sposa pienamente la prospettiva dell’Associazione parenti di n on puntare sul lutto privato ma sulla dimensione pubblica dell’evento, continuando a denunciare l’incapacità dimostrato dallo Stato di tutelare i propri cittadini. Considerando, infine, come la vicenda di Ustica non comporti solo uno sguardo al passato, ma chieda l’occhio aperto su un presente ancora di false notizie, di verità dimezzate, per un futuro differente.

23 Giugno 2021

Il segno degli artisti per Ustica. Andrea Mochi Sismondi ha raccolto decine di interviste a chi ha reso unico il Museo della Memoria

Brunella Torresin, «la Repubblica»

Chi è stato, chi ha abbattuto l’aereo civile in volo da Bologna a Palermo la sera del 27 giugno 1980, non lo sappiamo ancora. Sono trascorsi quarant’un anni, domenica ricorre l’anniversario della strage di Ustica e le domande, non meno dolorose né meno urgenti, si rinnoveranno poi, di sera in sera, lungo il calendario d’iniziative culturali. Coltivare il ricordo per giungere alla verità completa, informare per mantenere viva la consapevolezza di cosa può accadere quando lo Stato infrange il patto democratico di cittadinanza: è quel che Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime, chiama «fare memoria». Nel corso degli anni il suo «fare» ha incontrato e sollecitato il «fare» di centinaia di artisti. È stata una scelta di campo e uno strumento di coinvolgimento tenacemente perseguiti. Un libro, Il segno di Ustica, curato da Andrea Mochi Sismondi, autore, regista e attore, pubblicato da Cue Press, ne restituisce ora la polifonia di voci, e ne configura il futuro. Sono decine di interviste, a registi, cineasti, coreografi, musicisti, poeti, amministratori, scrittori, studiosi, curatori che hanno preceduto e accompagnato la creazione del Museo per la Memoria, che lo hanno abitato con le loro opere, con gli spettacoli ospiti delle rassegne estive, con i reading poetici,con i premi teatrali.

Nel 2006, quando Daria Bonfietti e Andrea Benetti incontrarono Christian Boltanski, l’artista francese aveva già legato il suo nome a visioni indimenticabili dell’assenza, della vita perduta e del perdurare della memoria. Quell’anno il relitto del Dc-9 era giunto a Bologna da Pratica di Mare, dove erano stati assemblati duemila ottocento frammenti recuperati dai fondali marini, e raccolti gli oggetti personali delle ottantuno persone la cui vita era stata interrotta da «un episodio di guerra in tempo di pace», come aveva stabilito la sentenza ordinanza delgiudice Rosario Priore.

L’installazione permanente che Boltanski decise di donare, e che ha trasfigurato il museo del relitto in una veronica di profondo lirismo, rappresenta un culmine. Ma tutt’attorno si raccoglie una moltitudine di testimonianze d’arte, quante mai un evento storico ne ha suscitate dal secondo dopoguerra a oggi. Un percorso unico, che le trecentoventi pagine de Il segno di Ustica ricostruiscono, con le parole di Franck Krawczyk, Nino Migliori, Marco Paolini, Giovanna Marini, Virgilio Sieni, Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi, Marco Risi, Pippo Pollina, Andrea Purgatori, Flavio Favelli, Michele Serra, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, Motus, Niva Lorenzini, Pietro Floridia… Le interviste raccolte da Andrea Mochi Sismondi – che in un capitolo, intervistato a sua volta, evoca lo spettacolo De facto , ideato con Fiorenza Menni a partire dal testo della sentenza – mettono a fuoco l’avvicinarsi, il motivarsi e il confrontarsi degli artisti con l’indicibile della strage. Vi sono elementi ricorrenti, nel loro «fare», a iniziare da una sorta di scarto emozionale, di lato e verso l’alto – e verso l’altro. Gli autori danno vita a lavori originali che mutano la traiettoria dei loro itinerari; il linguaggio di una sentenza diventa drammaturgia; un dolore privato si trasforma in battaglia civile. È una diastole e sistole, come il ritmo luminoso delle ottantuno lampade che nel Museo acquistano e perdono di intensità, come il battito di un cuore, dentro e fuori le pareti di un memoriale, nel corpo della città e della nazione.

21 Giugno 2021

Strehler, inno alla luce artigianale. Svoboda, gloria alla tecnologia. Solo Wilson trattò la luce come una protagonista

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Negli anni Settanta, mentre Strehler rivendicava la potenza della luce, grazie alla professionalità dell’elettricista, perché odiava quella computerizzata, mentre Svoboda creava le sue scenografie con l’uso della luce e dei mezzi informatici, lasciando, entrambi, lo spazio alla parola dello scrittore, Robert Wilson fece in modo che la luce assumesse un linguaggio assolutamente autonomo, fino a diventare protagonista dello spettacolo, trasformando, così, l’illuminotecnica in una vera e propria drammaturgia, costruita su effetti visivi, il cui fine era quello di andare contro la scena statica, di estrazione pittorica, per costruire una nuova realtà spaziale, vivificata da giochi cromatici e dalle infinite possibilità offerte dal mezzo luminoso. Cristina Grazioli e Pasquale Mari hanno dato vita a un libro, edito da Cue Press, Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena, nel quale affrontano l’argomento sia in modo teorico, essendo la Grazioli docente di Storia ed Estetica della luce, che in modo pratico, essendo Mari un Disegnatore luce e Direttore della fotografia.
Entrambi hanno affrontato un argomento alquanto tecnico che sfugge allo spettatore, ma, nello stesso tempo, lo hanno analizzato dal punto di vista estetico, capace di rendere più complice lo spettatore. In fondo, hanno cercato di spiegare in che modo l’universo della tecnica possa corrispondere all’universo della creazione artistica, e in che modo la «grammatica del vedere» possa essere conseguenza della «grammatica della rappresentazione» e, ancora, in che modo luce e colore possano essere interdipendenti.
Entrambi parlano di «partitura luminosa», in rapporto alla «partitura», e di spettacolo visivo autonomo, rispetto a quello rappresentativo. Il confronto tra i due tende a coinvolgere sia il versante storico-critico che quello della pratica scenica, con sconfinamenti che vanno dal territorio teatrale a quello pittorico coloristico, tanto che il colore, come accade in Wilson, viene percepito come un valore, non soltanto simbolico, ma anche psicologico.
L’approccio dei due autori avviene attraverso un dialogo di tipo platonico, con pagine puramente teoriche che si alternano con altre puramente pratiche nelle quali il visibile è messo in contrapposizione all’invisibile, dato che, spesso, la luce acquista un valore metafisico, grazie al suo potere di trasformare la «fabbrica scenica» in una scrittura visiva, tanto che il visibile e l’invisibile diventano il mostrato e il nascosto. Insomma, la luce serve per esprimere l’inesprimibile.
Il volume è diviso in brevi capitoli, dai titoli alquanto emblematici: Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voci, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria. L’utilizzo di questa nomenclatura ha a che fare con l’utilizzo della luce in scena, attraverso la diversità della sua declinazione , della sua variabilità e materialità, tanto da essere trasformata in una vera e propria «scrittura», dato che, sul palcoscenico, non si muovono soltanto gli attori, ma anche le forme, gli spazi, i silenzi, le parole non dette che la luce contribuisce a fondere. Ogni capitolo ha delle referenze fotografiche, con le quali, i due autori cercano di spiegare i loro concetti. Interessante la bibliografia che spazia dalla storiografia teatrale a quella pittorica e fotografica.

Collegamenti

13 Giugno 2021

Bentoglio, la rivoluzione teatrale di ‘re’ Giorgio

Pierachille Dolfini, «Avvenire»

Forse se lo sentiva. Forse Giorgio Strehler, il 23 dicembre del 1997, sentiva che quella sarebbe stata la sua ultima prova di sempre, sulle assi di un palcoscenico. Perché, lui che provava i finali dei suoi spettacoli solo all’ultimo momento, quel giorno, prima della pausa per il Natale, aveva voluto imbastire l’ultima scena del suo Così fan tutte, l’opera di Wolfgang Amadeus Mozart scelta per inaugurare, un mese dopo, il Nuovo Piccolo Teatro di Milano. Spazio sognato da sempre, progettato a lungo, un cantiere infinito (durato diciotto anni) che aveva contrapposto il regista a diverse amministrazioni comunali, con tanto di uscite di scena (dal vertice del Piccolo) da vero teatrante, salvo poi ripensarci. Finalmente, in quel dicembre del 1997, era pronto ad alzarsi il sipario del nuovo teatro progettato da Marco Zanuso. Non con un testo di prosa, ma con un’opera lirica. Scelta però coerente con la storia di Giorgio Strehler, nato a Barcola, un paesino vicino a Trieste, il 14 agosto del 1921, giusto cento anni fa.

Una storia che ha inizio in una famiglia dove il nonno Olimpio era cornista e direttore d’orchestra, ma anche impresario teatrale, così come il padre Bruno, di origine austriaca, morto quando il regista non aveva ancora tre anni, mentre la madre Alberta era violinista, che aveva suonato anche con Wilhelm Fürtwangler. Questo lungo spazio tra l’alfa e l’omega del regista triestino, scomparso la notte di Natale del 1997, lo racconta Alberto Bentoglio nel suo Venti lezioni su Giorgio Strehler (collana Saggi sul teatro da Cue Press. Pagine 393. € 42.99).

Il volume di Bentoglio, docente di Storia del teatro all’Università Statale di Milano, «nasce come libro di testo per i miei studenti, dato che in questo 2021 ho proposto un corso monografico su Strehler, proprio a cento anni dalla morte. Il regista è scomparso ventiquattro anni fa, quando nessuno dei miei studenti era ancora nato, dunque ho pensato ad un ciclo di lezioni con un percorso biografico e critico per chi di Giorgio Strehler non ha mai visto nulla» spiega il docente milanese che ha dato alle stampe un volume che, proprio per il taglio scelto, va oltre il semplice «libro di testo» e si fa mappa per addentrarsi nel mondo strehleriano. A più livelli.

Il racconto biografico e l’analisi in ordine cronologico degli spettacoli (ricco l’apparato bibliografico, dettagliata e completa la teatrografia) che fanno da ossatura si intrecciano alla voce del regista (interviste, dichiarazioni pubbliche…), a documenti storici rintracciati negli archivi del Piccolo, alle note di regia che Strehler amava scrivere dettagliatamente. Così che chi non sa nulla dell’artista triestino può avvicinarsi «al primo regista critico italiano, colui che ha inventato la regia nel nostro paese sia nel campo della prosa che del teatro musicale». Mentre chi lo ha conosciuto attraverso le sue regie può scoprire come quegli spettacoli nacquero e, magari, vedere come «dietro il carattere forte di un uomo che riusciva ad ottenere tutto ciò che desiderava ci fosse una persona profondamente generosa, capace di dare molto a chi gli stava accanto». E scoprire che a Milano, «prima dell’Albergo dei poveri di Gork’ij che nel maggio 1947 diede inizio all’avventura del Piccolo teatro, Strehler, a marzo, formò una verdiana Traviata per il Teatro alla Scala». Venti lezioni a cui Bentoglio ha dato forma nei mesi del lockdown per raccontare «un artista che è stato fondamentale per la politica culturale italiana, convinto sostenitore della necessità di aprirsi all’Europa», ma anche per chiedersi «quanto il suo modo di fare regia sia ancora percorribile». Due gli spettacoli che Bentoglio sceglie per raccontare la «rivoluzione» di Strehler.

«Il Macbeth del 1975 alla Scala diretto da Claudio Abbado perché fu l’inizio della rilettura da parte del teatro di regia delle opere di Verdi. E il Faust di Goethe, spettacolo realizzato tra il 1989 e il 1992, che vede Strehler in scena nei panni di Faust e che racchiude tante delle cose fatte negli anni, in una sorta di rilettura della sua vita umana e artistica».

Non uno spettacolo testamento, però. «Lo è, forse, l’ultima edizione di Arlecchino, diventato nel tempo sempre più malinconico» conclude Bentoglio, per il quale «l’eredità più bella di Strehler è il Piccolo teatro, che negli anni è stato guidato da Luca Ronconi e ora è affidato a Claudio Longhi, senza mai perdere la funzione di servizio pubblico che nel 1947 gli diedero Strehler e Paolo Grassi».

13 Giugno 2021

Mentre c’è chi afferma che l’Università italiana mortifica il merito, il Dipartimento di Discipline Umanistiche dell’Università di Catania, visto il successo di due ricercatrici, dimostra il contrario

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Il Dipartimento di Discipline umanistiche dell’Università di Catania è diventato una fucina di giovani ricercatori nell’ambito dell’Art Visual , della Performing Art e della drammaturgia, in genere, tutti lavorano attorno alla rivista «Arabeschi». Sulle pagine di questo giornale ci siamo occupati della ricercatrice: Laura Pernice, autrice di Giovanni Testori sulla scena contemporanea, uno studio accurato sull’autore di Novate dal 1993 al 2020, guidato da una metodologia di ricerca che attinge, non soltanto, a una completa bibliografia, ma anche a un rapporto diretto con gli attori e i registi. Il volume della ricercatrice Simona Scattina: Titina De Filippo. L’artefice magica, edito da Cue Press, è un’ulteriore conferma di un modo di lavorare tipico del Dipartimento a cui abbiamo fatto riferimento. L’autrice ha scelto, per la sua ricerca, Titina De Filippo, utilizzando tutta la bibliografia esistente, ma confrontandosi anche con il molteplice materiale del Fondo Carloni, che fu, per la prima volta, catalogato dalla Cattedra di Storia del Teatro dell’Università Federico II di Napoli, in occasione di una mostra, al Teatro San Carlo, che ebbi modo di visitare nell’Ottobre 1996, dove si poteva ammirare tanto materiale messo a disposizione proprio dal Fondo Carloni, il titolo della mostra era: Filumena in arte Titina, vi erano esposti lettere dei familiari, in particolare, del padre Scarpetta e dei fratelli Eduardo e Peppino, tantissimi copioni, molto materiale fotografico e una gran quantità di olii, mosaici, collage, che testimoniavano l’ultima attività, quella di Titina pittrice, a cui la Scattina ha dedicato un capitolo del suo libro, con testimonianze di De Chirico, Savinio, Carlo Carrà, Gino Severini, Ludovico Ragghianti.
Negli anni Cinquanta Titina, stimolata da Renato Simoni, che la presentò nel catalogo della mostra, fece notare la sua presenza di pittrice, a Milano, presso la Galleria di Vittorio Barbaroux; «La Domenica del Corriere» le dedicò un’ampia pagina (3 Dicembre 1950). Simona Scattina ha diviso il suo lavoro in sei capitoli, utilizzando, come materiale, gli elogi della critica, le memorie, gli epistolari, i testi teatrali e il materiale fotografico, presente in minima parte, nel capitolo dedicato alla iconografia. Seguendo le indicazioni di Meldolesi e di Taviani, Simona ha cercato, a suo modo, di entrare nel «corpo» dell’attrice, recuperandone, non solo la forza interpretativa, ma anche la fisicità, ovvero la sua maniera di stare in scena, anche prima di recitare insieme a Eduardo e a Peppino. Sono in molti a identificare Titina con i fratelli, in verità, fino alla nascita della Compagnia del Teatro Umoristico, 1931-1944, lei vantava già una storia personale come prima attrice e come vedette nel teatro di Rivista, tanto da poter vantare uno stile personale, il cui elemento principale era da ricercare nell’uso sapiente dell’ironia che mantenne anche quando visse a contatto con l’umorismo eduardiano e quello farsesco di Peppino.

La Scattina ci tiene a precisare che il suo ruolo, accanto ai fratelli, non fu affatto «marginale», essendo sempre al centro del trio che lei stessa aveva voluto, quando ne propose la nascita all’impresario Aulicino, per poi diventare una Compagnia autonoma, visti i trionfali successi, ma fu ancora lei a troncarne la continuità, dovuta alla forte personalità di ciascuno. L’autrice del libro segue tutta la storia di Titina, quella delle sue creature femminili, dalle sciantose a donna Amalia, a Filumena, a quelle interpretate nei vari film, dando, successivamente, voce ai testi scritti, ben diciannove, di cui analizza tre capolavori: Una creatura senza difesa, Quaranta, ma non li dimostra scritta insieme a Peppino e Virata di bordo, messa in scena da Nino Taranto con cui Titina lavorò per qualche stagione. (Nel 1993, Tato Russo, nella Collana Teatro, edita da Bellini, pubblicò sette testi).

All’analisi approfondita delle tre commedie, la Scattini fa seguire le Trame d’autrice, ovvero le schede degli altri testi. Titina era molto abile nell’inventare i ruoli, specie quelli femminili, man mano che li costruiva, lei li recitava nella sua mente, tanto da appartenere alla categoria delle attrici-scrittrici e viceversa, a quella che Michele Cometa definisce: «Il doppio ruolo». Ogni capitolo è arricchito da un’ampia bibliografia, con cui la Scattina intreccia un vero e proprio dialogo erudito, costruendo un ritratto completo della grande attrice che ebbe modo di trovare un suo spazio all’interno della Famiglia difficile, titolo della ben nota biografia di Peppino. La verità è che, a Titina, sia mancato un grande editore che si fosse occupato della sua drammaturgia, come, del resto, è accaduto per Peppino, il volume pubblicato da Cue Press le restituisce quanto dovuto.

7 Giugno 2021

Titina, macché ruolo marginale. La sua ironia? Uno stile personale tra un Eduardo umoristico e un Peppino farsesco

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il Dipartimento di Discipline umanistiche dell’Università di Catania è diventato una fucina di giovani ricercatori nell’ambito dell’Art-Visual, della Performing-Art e della drammaturgia, in genere, tutti lavorano attorno alla rivista Arabeschi.

Sulle pagine di questo giornale ci siamo occupati della ricercatrice Laura Pernice, autrice di Giovanni Testori sulla scena contemporanea, uno studio accurato sull’autore di Novate dal 1993 al 2020, guidato da una metodologia di ricerca che attinge non soltanto a una completa bibliografia, ma anche a un rapporto diretto con gli attori e i registi.

Il volume della ricercatrice Simona Scattina: Titina De Filippo. L’artefice magica, edito da Cue Press, è una ulteriore conferma di un modo di lavorare tipico del Dipartimento a cui abbiamo fatto riferimento. L’autrice ha scelto, per la sua ricerca, Titina De Filippo, utilizzando tutta la bibliografia esistente, ma confrontandosi anche con il molteplice materiale del Fondo Carloni, che fu, per la prima volta, catalogato dalla Cattedra di Storia del Teatro dell’Università Federico II di Napoli, in occasione di una mostra, al Teatro San Carlo, che ebbi modo di visitare nell’Ottobre 1996, dove si poteva ammirare tanto materiale messo a disposizione proprio dal Fondo Carloni. Il titolo della mostra era Filumena in arte Titina. Ed erano esposte lettere dei familiari, in particolare del padre Scarpetta e dei fratelli Eduardo e Peppino, tantissimi copioni, molto materiale fotografico e una gran quantità di olii, mosaici, collage, che testimoniavano l’ultima attività, quella di Titina pittrice, a cui la Scattina ha dedicato un capitolo del suo libro, con testimonianze di De Chirico, Savinio, Carlo Carrà, Gino Severini, Ludovico Ragghianti.

Negli anni Cinquanta, Titina, stimolata da Renato Simoni, che la presentò nel catalogo della mostra, fece notare la sua presenza di pittrice, a Milano, presso la Galleria di Vittorio Barbaroux; «La Domenica del Corriere» le dedicò un’ampia pagina (3 dicembre 1950).

Simona Scattina ha diviso il suo lavoro in sei capitoli, utilizzando, come materiale, gli elogi della critica, le memorie, gli epistolari, i testi teatrali e il materiale fotografico, presente in minima parte, nel capitolo dedicato alla iconografia. Seguendo le indicazioni di Meldolesi e di Taviani, Simona ha cercato, a suo modo, di entrare nel «corpo» dell’attrice, recuperandone non solo la forza interpretativa, ma anche la fisicità, ovvero la sua maniera di stare in scena, anche prima di recitare insieme a Eduardo e a Peppino.
Sono in molti a identificare Titina con i fratelli, in verità, fino alla nascita della Compagnia del Teatro Umoristico, 1931-1944, lei vantava già una storia personale come prima attrice e come vedette nel teatro di Rivista, tanto da poter vantare uno stile personale, il cui elemento principale era da ricercare nell’uso sapiente dell’ironia che mantenne anche quando visse a contatto con l’umorismo eduardiano e quello farsesco di Peppino.

Scattina ci tiene a precisare che il suo ruolo, accanto ai fratelli, non fu affatto «marginale», essendo sempre al centro del trio che lei stessa aveva voluto, quando ne propose la nascita all’impresario Aulicino, per poi diventare una Compagnia autonoma, visti i trionfali successi, ma fu ancora lei a troncarne la continuità, dovuta alla forte personalità di ciascuno. L’autrice del libro segue tutta la storia di Titina, quella delle sue creature femminili, dalle sciantose a donna Amalia, a Filumena, a quelle interpretate nei vari film, dando, successivamente, voce ai testi scritti, ben diciannove, di cui analizza tre capolavori: Una creatura senza difesa, Quaranta, ma non li dimostra scritta insieme a Peppino e Virata di bordo, messa in scena da Nino Taranto con cui Titina lavorò per qualche stagione. (Nel 1993, Tato Russo, nella Collana Teatro, edita da Bellini, pubblicò sette testi). All’analisi approfondita delle tre commedie la Scattini fa seguire le Trame d’autrice, ovvero le schede degli altri testi.

Titina era molto abile nell’inventare i ruoli, specie quelli femminili, man mano che li costruiva, lei li recitava nella sua mente, tanto da appartenere alla categoria delle attrici-scrittrici e viceversa, a quella che Michele Cometa definisce «Il doppio ruolo». Ogni capitolo è arricchito da un’ampia bibliografia, con cui la Scattina intreccia un vero e proprio dialogo erudito, costruendo un ritratto completo della grande attrice che ebbe modo di trovare un suo spazio all’interno della Famiglia difficile, titolo della ben nota biografia di Peppino. La verità è che, a Titina, sia mancato un grande editore che si fosse occupato della sua drammaturgia, come, del resto, è accaduto per Peppino. Il volume pubblicato da Cue Press le restituisce quanto dovuto.

Collegamenti

5 Giugno 2021

Magia della luce che tutto crea e tutto distrugge

Franco Marcoaldi, «la Repubblica»

A chi fa della facile ironia sui presunti echi new age di quanti individuano nella luce l’energia suprema e sacra che a tutto sovrintende e a cui è giusto inchinarsi, sarà bene ricordare che in avvio della Bibbia leggiamo «fiat lux» e nel Corano «luce su luce». Senza contare poi che sinonimo di nascita è «dare alla luce», mentre per contro, morendo, entriamo nel buio eterno.

D’altronde la stessa indiscussa sovranità di tale elemento, assieme magico e inafferrabile, la ritroviamo in pittura, oltre che nella fotografia e nel cinema. Bene lo dimostra un volume a quattro mani, di grande interesse, pubblicato dall’editore Cue Press: Dire luce. Ad animare il serratissimo dialogo sono Cristina Grazioli e Pasquale Mari. La prima è una studiosa da sempre attenta ai rapporti tra la scena e le arti visive. Il secondo un artista, (anche se preferisce definirsi ‘operaio della luce’), che in qualità di direttore della fotografia ha lavorato con i più importanti registi di cinema. Mentre in ambito teatrale, dove la sua attività è non meno intensa, sceglie per sè il termine nostrano di ‘direttore luci’ (e anche per averci risparmiato il lighting designer, oggi tanto in voga, dobbiamo essergli grati). A un certo punto del libro, Mari annota: «In termini psicofisici, chi si occupa della luce patisce una mancanza. Quella del tatto. Si soffre di non poter toccare la luce proprio mentre ci è richiesto di modellarla, di manipolarla, di farne strumento; scappa letteralmente da tutte le parti e si spende la vita a rincorrerla, a dirigerla, a provare a incanalarla (ma non è acqua), a modellarla (ma non è creta)».

Non si poteva dire meglio. Chi scrive con la luce deve affrontare con coraggio il possibile scacco a cui va incontro. E per evitarlo deve industriarsi in mille modi: intraprendendo un costante corpo a corpo con lo spazio scenico da svelare. Per poi giocare in quello spazio sempre di sguincio: con l’infinita gamma di possibili colori, con la penombra, la materia, la «polvere luminosa del palcoscenico», perfino con il buio (che non è mai totale).

Del resto, come scrive San Giovanni della Croce: «La luce non è cosa che si vede per se stessa, ma è il mezzo tramite cui si vedono le altre cose sulle quali essa si rifrange». E Mari chiosa: «Se non incontra qualcosa come un corpo o un oggetto (o un’anima, dice de la Cruz), la luce (anche quella di Dio) è buio». Bene lo sa chi da una vita prova a metterla in scena.

3 Giugno 2021

Renzo Guardenti, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale

Iari Iovine, «Sinestesieonline»
L’indagine sull’iconografia teatrale è stata da sempre oggetto di studio di Renzo Guardenti, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Firenze e direttore dell’Archivio di iconografia teatrale «Dionysos». L’argomento iconografico, tessuto connettivo imprescindibile nelle ricerche di ambito artistico-teatrale, trova ora nuovo sviluppo con la pubblicazione del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale, edito da Cue Press. Il lavoro riordina una serie di contributi imperniati sui risultati di alcuni decenni di ricerca nel settore. Offrendosi, infatti, come un articolato compendio di saggi, per l’occasione attentamente ritagliati ed emendati, il volume assoda con un discorso organico e convincente il legame tra teatro e arti figurative, al fine di reiterarne la fondamentale valenza ricoperta dagli studi teatrali. Il percorso investigativo si snoda essenzialmente lungo tre linee portanti che comprendono: una analisi speculativa del documento iconografico, con il relativo impiego e approccio metodologico compiuto dagli studi storici; le raffigurazioni della Commedia dell’Arte, specie del versante francese, responsabili di aver influenzato il mondo culturale europeo instillando precisi canoni artistici (quali pose, atteggiamenti o costumi); l’indagine sulle fonti iconografiche dell’attore verificate in un arco temporale di tre secoli, dal Settecento al Novecento, e condensata in particolare sul profilo dell’attrice Sarah Bernhardt avanguardista, come diremmo oggi, nel campo del personal branding, l’arte di promuovere la propria immagine; concludendo con l’esplorazione degli assetti visivi delle prime regie di Luchino Visconti. Il volume è opportunamente corredato da immagini, allegate alla fine del testo, che si offrono come oggetto di confronto, analisi e riflessione sui temi enunciati. Nel primo filone di ricerca confluiscono i capitoli iniziali (dal primo al terzo), intesi a rimarcare l’importanza delle immagini di teatro quali vettori indispensabili della natura visiva delle arti sceniche. Costituite da una duplice qualità che le connota sia come «monumenti», per la loro identità indipendente di dipinto, incisione o fotografia, che come «documenti», ossia fonti visive delle prassi sceniche e attoriche, tali immagini hanno il compito di tramandare la «memoria di forme artistiche». In una sinossi preliminare, Renzo Guardenti ricostruisce le traiettorie storiografiche attraversate dagli studiosi cimentatisi in questo campo di ricerca – tanto sterminato quanto multiforme – e relativo ai rapporti tra figurazione e scena. Dalle pionieristiche tesi di Émile Mâle, George Ridley Kernodle, agli studi di Erwin Panofsky ed Aby Warbung, nonché alle ricerche italiane di Cesare Molinari, Ludovico Zorzi, Maria Ines Aliverti o Elena Tamburini, l’autore sottolinea come ognuno di essi determini, seppur con prospettive, teorie e metodi di analisi dissimili, un punto di partenza essenziale ma, soprattutto, rivolto ad incentivare l’apertura verso nuovi orizzonti di indagine. Il passaggio dalla scena o dal dramma, al quadro o a qualunque altra superficie artistica, può essere decifrato, a detta dell’autore, come «un vero e proprio atto di traduzione». A partire dal paragrafo intitolato Iconografia come traduzione prende avvio, infatti, un discorso pertinente alla percezione visiva che tiene conto di come essa muti a seconda dell’osservatore, puntando inevitabilmente l’attenzione sulle problematiche connesse alle correlazioni tra arti figurative e teatro, specie quando le prime reinterpretano un soggetto adattandosi ad un cambiamento complessivo dei giudizi della figurazione. A tal proposito, egli riporta alcuni esempi che alterano le caratteristiche percettive e il significato stesso di un soggetto riferendosi, in particolare, alla conversione (e dunque traduzione) di un’opera grafica, o pittorica, in quella di un’incisione; oppure riferisce episodi di percezione totalmente antitetica nell’osservatore, quando segnala il lavoro di artisti, come Claude Gillot o Huquier, che inglobano in un’unica immagine vari e consecutivi estratti della medesima scena, tecnica consueta nelle illustrazioni decorative delle edizioni drammaturgiche. Rovesciando invece l’impostazione dell’assetto scena-quadro, l’autore mostra un particolare caso di «trasmutazione», che dal documento figurativo viene trasferito al palcoscenico. Ad essersi invischiato in questa peculiare forma di traduzione è ad esempio l’attore David Garrick, uno dei volti più ritratti nella seconda metà del Settecento che, come conseguenza alla divulgazione della propria immagine mediante le stampe, sperimenta un originale rapporto di riverbero: dalle raffigurazioni di sé egli tenta di estrapolare nuovi atteggiamenti da riprodurre sulla scena, innescando un processo di imitazione del ritratto che dalle stampe viene trapiantato alla scena, dunque in direzione diametralmente opposta ai precedenti esempi. Nel mirino dell’indagine autoriale sull’iconografia convergono anche le riviste teatrali, nelle quali lo studioso riscontra una sorta di ostilità, capillare e variegata, nei confronti dei dossier visivi di pratiche sceniche. Descrivendo infatti alcune esperienze personali vissute in tale settore e le istanze paradossali a cui ha dovuto adattarsi, egli fornisce informazioni quantomeno utili e chiarificatrici per un lettore che vuole avvicinarsi agli studi iconografici di settore. Le contraddizioni riportate rivelano un atteggiamento iconoclastico di periodici importanti, di fatto ancora restii nel pubblicare liberamente immagini nei propri spazi. Ed è dopo una breve rassegna di riviste teatrali e delle loro diverse tipologie, che egli attesta quanto il comune denominatore che lega questi periodici, in modo più o meno co- sciente, sia la volontà di imprimere sulla carta «un’idea di teatro», motivo che pare scontato ma che, a ben guardare, esercita la possibilità di ampliare quelli che Ferdinando Taviani definiva «teatri-in-forma-di-libro». Valga per tutti l’esempio di «The Mask», celebre rivista ideata e redatta da Edward Gordon Craig, la quale viene tempestata di elementi decorativi tra le superfici tipografiche, presenta studi costumistici e scenografici nei propri fascicoli, ed esibisce spezzoni di disegni registici avvicinandosi, così facendo, ad un vero e proprio «model stage». Per di più, nel successivo quinto capitolo, viene fatta luce anche su una categoria spesso estromessa dall’indagine sul campo, quella degli almanacchi, decifrati dallo studioso come straordinarie risorse per la documentazione visiva di messe in scena dell’Ancien Théâtre Italien. Più difficili da argomentare sono invece le icone dello spettacolo contemporaneo a cui viene dedicato il terzo capitolo. Con l’affermazione della nozione e della funzione di regia viene iniettata, come risaputo, una graduale ma massiccia dose di coefficiente visivo sulla scena novecentesca e, nel segnalare fenomeni iconografici inclini a mettere in crisi il concetto stesso di documentazione illustrativa, lo studioso annota una serie di esperienze teatrali che prendono le distanze dall’approccio mimetico-figurativo. L’uso spropositato di estensioni temporali o, all’opposto, le estreme decelerazioni di alcuni allestimenti (come gli espedienti scenici adoperati da Bob Wilson) e, in linea di principio, gli spettacoli aderenti a quel genere definito teatro-immagine, aprono la strada a nuovi sistemi di fruizione: «La disgregazione della tradizionale boîte scenica, la moltiplicazione dei punti di vista, la riformulazione dei rapporti spaziali tra evento e spettatore, la scomposizione e la frammentazione della diegesi, la dimensione figurale della scena e della manifestazione del corpo dell’attore/performer parcellizzano e rendono parziali anche i reperti visivi impedendo una ricomposizione, se non oggettiva, quantomeno unitaria del fenomeno cui si riferiscono». La questione innescata dallo studioso riguarda dunque, essenzialmente, la dimensione fenomenica, le labili impronte visive lasciate da questo tipo di rappresentazioni, quasi impossibili da ricostruire in un quadro unitario. Il quarto capitolo viene invece destinato agli studi sull’iconografia d’attrice, argomento che muove inevitabilmente dalla forma teatrale della Commedia dell’Arte. Al di là delle già note paladine della sfera ritrattistica, quali Isabella Andreini o Virginia Ramponi (Florinda), due volti sedimentatisi in maniera mirabile e sostanziale nelle opere d’arte del periodo, esemplare è la serie di piccoli ritratti realizzati da Bernerd Picart, prova infrangibile – come sottolinea Renzo Guardenti – della cospicua presenza femminile nelle illustrazioni. Seppur contraddistinte da uno spiccato gusto ornamentale e da sguardi che svelano repressi istinti passionali, le donne dell’Ancien Théâtre Italien raffigurate nella serie si collocano, alla fine del Seicento, su di un livello equipollente a quello dei colleghi attori, dunque sul medesimo gradino occupato dal genere maschile. Si tratta tuttavia di un fenomeno destinato a subire, negli anni successivi, un marcato assottigliamento dovuto a molteplici fattori. Il mito della Commedia Dell’Arte deve in gran parte la sua fortuna proprio ai contributi figurativi, le cui sedimentazioni nell’immaginario collettivo del tempo possono essere annoverate come un impulso trainante per la divulgazione del genere, specialmente per l’economia di mercato. Nell’attraversare il vastissimo repertorio iconografico, l’autore distingue la Commedia Dell’Arte come un autentico «modello epistemologico» in quanto riflette le ripercussioni scatenate e patite dall’intera gamma illustrativa, la resistenza di stilemi e fenomenologie in termini culturali ed estetici o le percezioni degli artisti, che spesso ne snaturano le copie reali. L’esempio più avvincente di alterazione d’immagine indicato è forse quello correlato alla maschera di Pulcinella. Costretto a subire una vera e propria destrutturazione della propria immagine, questo indiscutibile protagonista delle raffigurazioni settecentesche viene ritratto tanto in sfere domestiche e private, quanto in spazi asettici, completamente bianchi, che escludono anche il più minuto richiamo al teatro e alla teatralità; viceversa, denuncia l’autore, Pulcinella viene trasferito in un contesto talmente quotidiano che le più ordinarie azioni, del mangiare come del dormire, si arricchiscono di componenti criptiche ed imperscrutabili, generando di conseguenza sensazioni di sconcerto. Ma ad infrangere i tradizionali codici visivi è, più di tutti, il fenomeno della moltiplicazione dell’immagine, qualità inedita che non trova riscontri in altre maschere e si fa largo nei disegni del veneziano Giambattista Tiepolo, del figlio Giandomenico Tiepolo o del romano Pier Leone Ghezzi. Tali artisti inseriscono le varie sfaccettature della vita pulcinellesca in ambienti sospesi, «en plein air», dando spazio alla duplicazione del protagonista, il quale è ripreso in diversi punti del medesimo spazio ma in atteggiamenti diversi. Associato all’ultimo ambito d’analisi è invece il modello iconografico attoriale che, separatosi dall’esperienza della Commedia Dell’Arte, viene impostato sul lasso temporale che da François Joseph Talma conduce ad Antonio Morrocchesi. Se in area francese Talma appare decisamente consapevole della portata promozionale delle immagini, instaurando un autentico mito iconografico volto a registrare l’evanescente arte recitativa su ‘carta’ – tramutandola in ‘monumento’ –, in territorio tedesco le raffigurazioni di August Wilhelm Iffland e Ludwig Devrient assumono la forma di documentario, mentre in Inghilterra il modello di Edmund Kean, e le sue indimenticabili pose, accrescono la tendenza della ritrattistica d’attore. A finire invece in quell’ampio calderone che l’autore classifica come «macro-documento-iconografico» sono gli illimitati contributi visivi (dipinti, incisioni, fotografie, filmati) che hanno favorito la creazione della leggenda di una delle più grandi attrici europee del XIX secolo: Sarah Bernhardt. Ad essere esaminate sono soprattutto le impressioni, percepite da varie personalità artistiche, del potere seduttivo di un interprete. Consapevole delle potenzialità del proprio corpo, l’avvenente Bernhardt manifesta un’audacia spregiudicata dinanzi all’obiettivo, una sicurezza che la porta a divenire modello, per altre attrici, non solo recitativo bensì di femminilità e costume. Noto, pertanto, è il famoso stile «sarahbernardtesque» nel quale convergono anche i tratti privati e costumistici dell’artista che, in una costante commistione tra mondo attorico e mondo personale, attestano l’esigenza di non svincolare mai la donna dall’attrice teatrale per non scalfirne l’aura attrattiva. Ancora una volta è dimostrato come gli influssi annessi a prassi attoriche, o a stili personali di un performer, tratteggino un anello che congiunge il teatro alla vita in continua e vicendevole dipendenza. Esclusivo inoltre è l’approfondimento su quel «fil de l’image» che connette la Bernhardt alla pittrice francese Louise Abbéma, un tema che, vagliando i peculiari tagli compositivi o gli inusuali ed intriganti quadri che l’artista dedica all’attrice,stimola indubbiamente la curiosità e l’interesse del lettore. Infine, le ultime riflessioni di Renzo Guardenti si dipanano alle linee di tendenza che hanno contraddistinto i primi allestimenti registici di Luchino Visconti e le intrinseche strutture visive. Oltre a ribadire il Leitmotiv viscontiano dell’ossessionante realismo,caratteristica ampiamente dibattuta dagli studi critici e che affiora specialmente in quell’«attenzione microscopica al dettaglio minuto» che investe anche l’apparato scenografico, l’autore segnala l’indispensabile ruolo che Visconti attribuisce all’attore, componente che acquisisce nuovo spessore giacché «generatore del complesso visivo degli spettacoli […] elemento di raccordo tra la dimensione verbale e quella spaziale [e dunque scenografica]». Nell’insieme il volume rinnova, in modo critico e ragionato, la necessità di rinvigorire il dibattito sul rapporto tra palcoscenico e raffigurazione, svelandone gli impulsi e gli effetti complementari. Le argomentazioni propongono quesiti e nuove prospettive d’indagine, al fine di affinare quell’osmosi tra teatro e arte figurativa, sottintesa e mai banale, che verificata smaschera la trasversalità che contraddistingue i due universi in ‘visioni’ ineludibili. Collegamenti
1 Giugno 2021

In forma di quadro. Note di iconografia teatrale

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

La confezione editoriale del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale di Renzo Guardenti presenta 148 pagine che raccolgono saggi compilati dallo studioso fiorentino lungo vent’anni di ricerca e poi un corpo di 167 figure di supporto non decorativo, ma funzionale in quanto strumento necessario per lo studio dei rapporti intercorrenti tra teatro e arti figurative. Si tratta, in primo luogo, di capire il valore testimoniale delle fonti iconografiche, pur considerando la loro autonomia creativa in fase di rielaborazione figurativa dell’oggetto teatrale che si sostanzia – con il supporto di variegate tecniche artistiche – nella carta, nella tela, nella lastra dell’incisore, fino ai manufatti delle arti plastiche, nelle fotografie e nelle moderne riproduzioni visive.

L’indagine di Guardenti si articola lungo un percorso storico che procede dal Seicento al Novecento. La ricognizione inizia con le attrici della Commedia dell’Arte: fino all’ultimo ventennio del XVII secolo godono di modesta ma non insignificante presenza iconografica; successivamente si diffondono copiosi i loro ritratti singoli, dai quali è possibile congetturare il richiamo ad una certa e possibile dimensione scenica.
L’intreccio tra drammaturgia del testo, esercizio dell’attore e sedimentazione figurativa orienta l’osservatorio analitico di Guardenti sul versante francese, segnatamente nel perimetro culturale della prima Comédie Italienne e nei contributi pittorici di Claude Gillot e di Jean-Antoine Watteau, cui segue una puntigliosa analisi delle raffigurazioni della Commedia dell’Arte diffuse nel Settecento.

Il discorso cambia quando l’attore, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizia ad affermarsi come entità sociale e culturale. L’attore si mette in posa, statuaria e teatrale, come dimostra François-Joseph Talma, immortalato, con limpidi riferimenti al suo linguaggio performativo, nei panni di Nerone da Eugène Delacroix nel 1853.
Luminose sono le pagine che Guardenti dedica a Sarah Bernhardt, la «prima vera diva della storia dello spettacolo in grado di fare tendenza non solo nel teatro ma anche in termini di costume e stile di vita» (p. 122). Immortalata da diverse centinaia di fotografie, diventa presto modello figurativo per la coeva generazione di attrici che ne assumono pose, gesti e abbigliamenti, come l’austriaca Adele Sandrock.

In forma di quadro si conclude con una minuziosa e intrigante analisi delle prime regie di Luchino Visconti, dall’opera lirica La Vestale di Gaspare Spontoni, allestita nel 1954, a Parenti terribili di Jean Cocteau (1945) e La vita del tabacco di Erskine Caldwell (1945). Il realismo del regista attraversa sia la connotazione dei personaggi, tanto melodrammatici quanto teatrali, che il linguaggio figurativo dell’impianto scenografico, come emerge con chiarezza dalle foto di scena.

Collegamenti