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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

22 Settembre 2021

Artaud o la rivoluzione dell’altrove

Giorgia Bongiorno, «Antinomie»

Nel ricco apparato della prima edizione del Teatro e il suo doppio nelle Œuvres Complètes di Antonin Artaud (Gallimard 1978), Paule Thévenin inserisce una nota sul teatro balinese completamente inedita e dalla storia abbastanza singolare. Scritta anch’essa sulla scia dello spettacolo di danza balinese dell’Exposition Coloniale parigina nell’estate 1931 – in vista della famosa recensione di qualche mese dopo sulla NRF che diventò la scintilla di uno dei libri di teatro più importanti del Novecento – la brevissima nota era stata ritrovata per caso negli anni Cinquanta da Serge Berna, un poeta lettrista conosciuto per le sue provocazioni pubbliche à la manière surrealista e curatore di un’edizione di Vie et mort de Satan le feu per la collana Voyants delle edizioni Arcanes (1953). Nella prefazione Berna racconta le circostanze della scoperta. Il poeta stava aiutando un amico rigattiere a svuotare una soffitta in rue Visconti, a Parigi; l’amico, «forte bevitore», scende a farsi un bicchiere, lasciando il poeta a rovistare fra le pile di carte, dove questi scoprirà una serie di fogli dalla scrittura «irregolare, febbrile» su cui si staglia la firma di Antonin Artaud: accanto alle tre pagine di Vie et mort de Satan le feu (il testo centrale dell’edizione Arcanes), molti brogliacci, appunti sparsi su religioni e cosmogonie orientali e messicane, fogli preparatori per il viaggio messicano ma anche testi scritti direttamente in Messico e tante altre pagine che Berna scelse allora di non pubblicare, fra cui la nota che uscì appunto più di vent’anni dopo. Thévenin confermerà all’epoca la veridicità della grafia e nell’apparato critico avanzerà l’ipotesi che quelle carte fossero state lasciate da Artaud a casa di Cécile Schramme al momento della rottura fra i due, alcuni mesi prima di salpare per l’Irlanda nell’agosto 1937.

Ancora una volta l’opera artaudiana sembra catturata in un perturbante cerchio magico di luoghi segreti e tempi sfasati, come successe anche per la vicenda dei bauli pieni dei quaderni di Rodez e di Ivry che la stessa Paule Thévenin fece sparire a qualche ora dalla morte di Artaud, il 4 marzo 1948, e che saranno integrati in toto nelle Opere complete di cui sopra. Un gesto potente e rischioso all’origine di un’accidentata faccenda di eredità, che se dal punto di vista editoriale si è conclusa nel 2004 con l’edizione del Quarto Gallimard a cura di Evelyne Grossman (cui seguirà l’edizione in fac-simile proprio dei Cahiers), forse resterà, al di là della prospettiva scientifica di una restituzione genetica del manoscritto, aperta per sempre. Il lettore di Artaud, certo suo semblable e frère ma con il compito di ricevere le «emanazioni mortali» del libro, come già Lautréamont pretende alle soglie dei Canti di Maldoror, ha a che fare con un’opera impossibile (che nasce ribadendo la propria impossibilità, se pensiamo al dialogo con Jacques Rivière), con un corpus di scritti esorbitante, con una scrittura che buca la pelle del senso, che questo avvenga nel «nuovo genere» del carteggio con Rivière (così lo definirà una figura centrale della NRF di quel periodo, un certo André Gide) o nelle pagine concretamente bruciate e perforate degli ultimi anni che creano una nuova scena della Crudeltà.

A qualche giorno dalla partenza dell’agosto 1937 Artaud si rivolge alla Légation d’Irlande di Parigi, da cui spera un aiuto finanziario, affermando di voler ritrovare in Irlanda le fonti vive di un’antichissima tradizione già cercata in Messico e ora perseguita nella sua «forma occidentale». Il 19 luglio 1935 aveva scritto a Jean Paulhan: «non mi pare sbagliato per noialtri, qui, che qualcuno vada a ‘sondare’ ciò che può essere rimasto in Messico d’un naturalismo in piena magia […] sparsa qua e là nella statuaria dei templi […] nel sottosuolo della terra e nelle vie ancora mobili dell’aria». Nella nota sul teatro balinese ritrovata da Berna e datata verosimilmente luglio-agosto 1931, Bali è definita come «l’unico paese al mondo in cui un principio filosofico ha trovato la propria corrispondenza materiale e un’esistenza sostanziale e plastica». Nella finzione dell’anarchico suolo siriano di Eliogabalo (1934) i cui «templi sono risonatori di meraviglie reali, di magia esteriorizzata» o nei paesaggi concreti dei viaggi e delle scoperte, la magia è da intendere rigorosamente come azione produttrice di realtà. «Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, che vale soltanto attraverso un legame magico, atroce, con la realtà e con il pericolo», scrive Artaud nel primo manifesto del Teatro della crudeltà. Ben al di là della sua accezione e ricezione esoteriche, la magia assume una funzione di trasmutazione, si potrebbe dire di traduzione, della metafisica verso la scena o viceversa («l’idea di una metafisica tratta da un uso nuovo del gesto e della voce» come si legge proprio in Sur le théâtre balinais). Il punto essenziale è quindi sempre quello di una ricerca sincretica delle basi vitali di una cultura occidentale priva di «piena magia».

Nel dettaglio della rue Visconti, vero e proprio hasard objectif, ritroviamo la reversibilità di Occidente e Oriente capace di riattivare qui, per «noi gente d’Occidente» e per le «nostre menti contaminate di Europei», la forza del teatro. Il foglio della nota balinese è infatti barrato con un tratto verticale, sul retro si riconosce la penultima pagina di Le Mexique et la civilisation (scritto a Parigi in previsione delle conferenze messicane) dove ritorna la necessità di riattivare un atto che collega e rivivifica quanto il gesto balinese: «Se la magia è una costante comunicazione dall’interno all’esterno, dall’atto al pensiero, dalla cosa alla parola, dalla materia allo spirito, si può dire che abbiamo perso da tempo questa forma di ispirazione folgorante, di nervosa illuminazione, e che abbiamo bisogno di ritemprarci in fonti ancora vive e non alterate».

Due libri artaudiani, ripubblicati recentemente, sembrano disporsi come il foglio bifronte della rue Visconti e ci permettono di ripercorrere attraverso l’incrocio Messico/Bali il fertile nodo con cui Artaud tiene insieme la cultura occidentale e un suo altrove, incarnatosi di volta in volta in figurazioni o trasfigurazioni geografiche diverse: in una Bali ricostruita nella Parigi degli anni Trenta, tra un’etnologia sempre più cosciente e un colonialismo morente e mai morto; e nella Sierra Tarahumara messicana, traguardo del viaggio oltreoceano di Artaud a metà strada fra la spedizione etnografica e il pellegrinaggio, reiterazione della pagina simbolica di Eliogabalo e preludio all’ultima immersione nei segni che dall’Irlanda lo portò al manicomio di Rodez.

Il libro di Nicola Savarese, Parigi-Artaud-Bali (riedizione del saggio omonimo pubblicato da Textus nel 1997) fissa «nelle fosforose ceneri dell’inchiostro» le tracce della conferenza-spettacolo ideata e portata in giro negli anni Novanta in cui lo studioso affrontava in modo originale l’evento chiave che cristallizza l’idea artaudiana di teatro sullo sfondo dell’Exposition Coloniale parigina del 1931. Il libro di Marcello Gallucci (edizione ampliata di quello pubblicato da Monteleone nel 1994) dà la parola direttamente ad Artaud, presentando la traduzione delle conferenze, degli articoli e di molte lettere dell’esperienza messicana, ma funziona come un prezioso vademecum critico che, oltre a realizzare una ricostruzione filologica di un materiale complesso, propone un’analisi approfondita e una contestualizzazione indispensabile dei testi legati al Messico (fatta eccezione delle pagine già pubblicate sui Tarahumara) che vanno dal febbraio all’ottobre 1936.

Nel luglio 1931 Artaud assiste quindi a uno spettacolo di danza balinese nel padiglione delle Indie Olandesi dell’Exposition Coloniale inaugurata nel maggio dello stesso anno a Parigi. Una sua recensione uscirà ai primi di ottobre nella NRF e sfocerà nel testo composito, molto più lungo, che costituirà il nucleo primigenio del Teatro e il suo doppio. La recensione contiene già il punto cruciale del rivoluzionario programma artaudiano: far esplodere i vincoli della psicologia occidentale che porta sulla scena un rito ormai vuoto e riagganciare lo spazio teatrale alla forza sacra che innerva il gesto dell’attore, ritrovandone la motilità metafisica. Non può passare inosservata la dimensione occasionale da cui nasce questo testo chiave di Artaud; molte pagine del Teatro e il suo doppio provengono da conferenze, si nutrono di lettere, di incontri e di scontri. Anche il suo libro forse più intenso, Van Gogh le suicidé de la société (in cui la forza ecfrastica, già elettrica nei testi surrealisti su Masson o De Boschère, tocca vette altissime), è buttato giù freneticamente dopo la visita della mostra del 1947 all’Orangerie. Da una parte l’occasione funziona da reagente, l’illuminazione (Savarese parla giustamente di «satori» per l’Artaud spettatore del Djanger balinese) dà corpo alle utopie ancora inespresse di un teatro o di una pittura totalmente nuovi, un po’ come Picasso scova in una maschera di art nègre le infinite possibilità che svilupperà nel cubismo. Dall’altra la visione scatenante porta l’urgenza di un contrasto: il Van Gogh si ribella violentemente contro la «pittura lineare», ma anche e soprattutto contro la psichiatrizzazione del pittore. E l’Artaud degli anni Trenta si scaglia contro il «teatro digestivo» occidentale e parigino che conosceva bene per aver preso parte alla sua «vita intima» e aver assistito (come dirà al pubblico dell’Alliance Française di Città del Messico nel 1936 in una conferenza-testimonianza tradotta e commentata da Gallucci) «a tutti gli spettacoli che, dal 1920 al 1936, segnarono Parigi con la loro impronta». Alla scena di un teatro psicologico e di parola, Artaud (convinto «della quasi inutilità della parola che non è più il veicolo ma il punto di sutura del pensiero») contrappone un’idea di teatro «puro» e «metafisico» che gli si rivela nel gesto dei danzatori balinesi: «Quel roteare meccanico degli occhi, quelle smorfie delle labbra, quel dosaggio di contrazioni muscolari dagli effetti metodicamente calcolati e che tolgono ogni ricorso all’improvvisazione spontanea, quelle teste spinte da un movimento orizzontale e che sembrano ruotare da una spalla all’altra come incastrate su un binario scorrevole, tutto questo, che risponde a necessità psicologiche immediate, risponde inoltre a una specie di architettura spirituale, fatta di gesti e di mimiche, ma anche del potere evocatore di un ritmo, della qualità musicale di un movimento fisico, dell’accordo parallelo e magnificamente sfumato di un tono. […] Il nostro teatro che non ha mai avuto l’idea di questa metafisica dei gesti, che non ha mai saputo far servire la musica a fini drammatici così immediati, così concreti, il nostro teatro esclusivamente verbale e che ignora tutto quel che fa il teatro, ovvero quello che c’è nell’aria del palcoscenico, che si misura e si circoscrive d’aria, che ha una densità nello spazio…»

La prospettiva di Sur le théâtre balinais ricorda ancora gli insegnamenti di Charles Dullin, per la cui compagnia il nostro aveva lavorato come attore e scenografo fin dai primi anni parigini («I Giapponesi sono i nostri maestri diretti, e i nostri ispiratori, e per di più con Edgar A. Poe. È meraviglioso», scrive Artaud della scuola dell’Atelier a Max Jacob nel 1921). Il direttore e fondatore del Théâtre de l’Atelier guarda infatti ai teatri asiatici per la gestualità assolutamente inedita: «L’attore giapponese parte dal realismo più meticoloso e arriva alla sintesi per mezzo di un bisogno di verità. Per noi, la parola ‘stilizzazione’ evoca subito una specie di estetismo irrigidito, di ritmica scialba e docile; per loro, la stilizzazione è diretta, eloquente, più espressiva della stessa realtà. Ogni gesto è ravvivato da un tratto acuto che lo valorizza appieno. […] Il corpo dell’attore giapponese non è soltanto duttile come quello del più abile dei danzatori, ma sembra plasmato dal teatro e per il teatro».

Ma per Artaud l’Oriente non è (solo) un mito esotico verso cui tendere né un altrove di fronte al quale assumere quella postura etnografica fondamentale che cominciava a diffondersi in quegli anni – e che Savarese, attento studioso delle relazioni complesse Oriente-Occidente, condensa in una serie di figure-chiave del tempo: dal Leiris dell’Afrique fantôme che si allontana sempre più dal pittoresco sguardo occidentale (e il diario della famosa missione Dakar-Djibouti che gli farà percorrere l’Africa nera per due anni in compagnia di Marcel Griaule modellerà del resto una parola profondamente diversa, etnologica e letteraria insieme) e che è già agli antipodi della «strana città sorta nel bosco di Vincennes»; a Roselène Dousset, figlia del missionario etnografo Lenhardt e nata in Nuova Caledonia, che è spinta verso l’antropologia proprio dall’esperienza traumatica dell’esposizione parigina dell’altro (di «elementi coloniali in carne ed ossa», leggiamo in un numero della rivista Comoedia del marzo 1931) subita dai Canachi di cui condivideva la cultura; e in genere ai surrealisti tutti la cui presa di coscienza etnografica è all’origine dei volantini che, ancora a braccetto con il partito comunista, denunciano vigorosamente il colonialista luna-park di cartapesta che offre alla massa parigina un facile esotismo domenicale alle porte della città. Una folla eterogenea (che accomuna visitatori disillusi come Francis Scott Fitzgerald o Paul Morand, nostalgici di un esotismo ormai perduto, e piccolo borghesi parigini a caccia di insolito) si ritrova in questo luogo art déco costruito per l’occasione, che a tutt’oggi rincorre una sua faticosa redenzione, per celebrare non più quella «moveable feast» vissuta da Hemingway nella Ville Lumière degli Anni Venti (pur se la vita parigina continua a pullulare delle tante presenze evocate dai documenti di ogni genere riuniti da Savarese: da Cocteau a Josephine Baker, da Anaïs Nin a Prévert, da Beauvoir a Copeau…), bensì una «festa coloniale» dalla multiculturalità fintamente irenica di cui del resto l’incendio del Padiglione delle Indie Olandesi sopraggiunto quell’estate metterà a nudo la natura fittizia. «Così si completa l’opera colonizzatrice iniziata con il massacro, continuata con le conversioni, il lavoro forzato e le malattie», tuonano i surrealisti.

Artaud non è già più sulla stessa lunghezza d’onda di Breton e compagni, pur condividendo tutti i presupposti di quello che fu indicato come un surrealismo etnografico. Per lui l’Oriente non costituisce né un orientamento né un orizzonte in grado di precorrere ideali da realizzare, come avvenne per un Craig o un Mejerchol’d; gli serve piuttosto da reagente, funziona come una miccia per spalancare universi inusuali e nuove forme visionarie. Senza giungere al rovesciamento paradossale che si gioca a Rodez attorno a Lewis Carroll, è sempre e comunque l’unicità di Artaud che viene attivata dal confronto, e così avviene con Bali. Come disse Soupault «Artaud vide quel che gli era necessario vedere». E Savarese insiste sulla natura eccentrica di quello sguardo da nuovo veggente rimbaudiano: che ha una visione teatrale di fronte a uno spettacolo di danza, e non può essere ricondotto soltanto a una prospettiva etnologica di comprensione.

La questione segna forse lo snodo principale rispetto al libro di Gallucci, di cui una delle intenzioni centrali è proprio quella di riportare alla luce il substrato reale dei documenti per conferire uno spessore antropologico all’esperienza mitologica messicana. Ma in fondo gli autori, entrambi fini rilettori dell’Artaud di Monique Borie, si ritrovano nella valenza eminentemente teatrale – pratica e operativa – attribuita all’incessante dialogo con le altre culture perseguito dall’autore del Teatro e il suo Doppio. Stagliandosi sull’ordito fitto e proliferante di esotismi del suo tempo, il ritorno alle origini di Artaud prende la forma di un «cortocircuito» creatore (Savarese), di un «solecismo» in grado di produrre quella «figura dell’impossibile» rincorsa dall’esistenza e dall’opera (Gallucci).

L’edizione critica di Marcello Gallucci opera una ricomposizione dell’Artaud messicano attraverso il «riscatto» dei testi minori, alcuni addirittura inediti, meno in luce di quelli sui Tarahumara. Il volume «indiziario» viene ricostruito partendo dallo stesso progetto di Artaud di riunire presso un editore messicano tutti i suoi «testi sulla cultura autoctona del Messico in un libro» (come scrive da Città del Messico a Paulhan nel maggio del 1936) e che diede vita alla parziale edizione di Luis Cardoza y Aragòn nel 1962; e ha il merito di incrociare l’edizione francese curata successivamente da Paule Thévenin e Philippe Sollers (che diventerà l’ottavo volume delle Œuvres Complètes) con tutti i testi in edizione spagnola provenienti dalla silloge di Cardoza e/o dalle varie riviste messicane su cui erano usciti. A partire dagli scritti come anche dalla ricognizione del viaggio e del soggiorno attraverso le lettere e infine della rete di contatti, di scambi, di occasioni tratteggiata dall’autore (si pensi non soltanto all’aiuto prezioso di Cardoza o Elìas Nandino una volta Artaud arrivato in Messico, ma anche a quello di Alejo Carpentier nella tappa cubana) possiamo prendere la misura di un viaggio «non del tutto reale ma non proprio immaginario», in cui si concretizzano una categoria dello spirito e un’ossessione di lunga durata, vecchia almeno quanto lo spettacolo annunciato dal Secondo Manifesto del Teatro della Crudeltà e mai realizzato: La Conquista del Messico. La visione balinese si travasa così nell’attraversamento mentale del Messico precolombiano, simbolico e incarnato al contempo, in un viaggio che Artaud farà per lo più dal tavolino del Café Paris di Calle de Gante nel quartiere Roma della capitale, da cui si allontanava raramente. Ma l’enigmatica e geroglifica Sierra Tarahumara – alla cui soglia si ferma il libro di Gallucci, e verso cui Artaud partirà nell’agosto del 1936 coi pantaloni di flanella e le scarpe prestatigli da Cardoza – si riverbera con la sua geografia intima e universale su tutti questi Messaggi rivoluzionari.

Si tratta di una rivoluzione in cui l’altrove è davvero il doppio del teatro e con la sua alterità opera una rotazione massima della sepolcrale scena occidentale, dando vita ad un «atletismo affettivo» che va al di là del sapienziale e raggiunge la scena. Gallucci mette infatti bene in risalto nell’edizione e nel commento finale quanto le pagine messicane siano in continuità col Teatro e il suo doppio, libro-precipitato di testi e tracce che scaturiscono dall’impresa del Teatro Alfred Jarry e giungono sino al fallimento dei Cenci, unico spettacolo del Teatro della Crudeltà, rappresentato poco prima della partenza per il Messico. E sarà a bordo del Transatlantico French Line in rotta per l’Avana, il 25 gennaio 1936, che Artaud scriverà a Jean Paulhan, in una lettera giustamente nota: «Caro amico,
Credo di aver trovato il titolo giusto per il mio libro. Sarà:
IL TEATRO E IL SUO DOPPIO
perché se il teatro è il doppio della vita, la vita è il doppio del vero teatro e questo non c’entra nulla con le idee di Oscar Wilde sull’arte. Questo titolo risponderà a tutti i doppi del teatro che penso di aver trovato in tanti anni: la metafisica, la peste, la crudeltà, il serbatoio di energie costituito dai Miti, che gli uomini non incarnano più, e sono incarnati dal teatro. E con il doppio intendo il grande agente magico di cui il teatro con le sue forme è solo la figurazione, in attesa di diventarne la trasfigurazione. È sulla scena che si ricostituisce l’unione del pensiero, del gesto, dell’atto. E il Doppio del Teatro è il reale inutilizzato dagli uomini di oggi».

I due libri, diversi per cronologia e tonalità, hanno meriti simili. Uno di questi è sicuramente la multidirezionalità, capace di restituire la complessità delle esperienze artaudiane, reimmergendole in un tessuto storico e strappandole a qualsivoglia tentazione agiografica, sempre in agguato. Savarese accosta documenti e iconografia con un montaggio che procede per «nessi diretti» e «nessi associativi». Tra cerchi concentrici e deviazioni (si pensi al capitolo dedicato al mitico Tabù di Murnau da cui spunta il pittore Walter Spies, figura essenziale per la conoscenza di Bali agli inizi del Ventesimo secolo), ci si perde con diletto nella Parigi artistica e notturna degli anni Trenta. Gallucci compone l’idea messicana in un prisma di presenze e voci reali, tratteggiando nitidamente quell’Artaud «delgado, eléctrico y centelleante» che sorge dai ricordi dell’amico Cardoza. E alla ricostruzione rigorosa della traiettoria umana e concettuale fa corrispondere i vari addenda focalizzati sulla ricezione messicana delle conferenze e degli scritti, nonché alcuni appassionati affondi ermeneutici sull’aspetto decisamente mistico dell’avventura, che contribuiscono a dare la misura della ricchezza di quella ricerca «mitomane» e ostinata.

Ci sembra tuttavia che il merito maggiore dei due volumi sia quello di non perdere mai di vista la finalità «immediata» che sottende i viaggi nell’altrove di Artaud, quella forza magica e performativa che il suo pensiero teatrale e poi i sortilegi irlandesi, le glossolalie dei quaderni, la poesia e i disegni degli ultimi anni praticheranno incessantemente, inventando un corpo e una scena senza paragone.

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23 Agosto 2021

Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Nell’ambito della storiografia delle discipline dello spettacolo sono veramente pochi gli studi dedicati all’illuminazione scenica. Probabilmente incide il prevalere storico della concezione testocentrica che orienta l’attenzione primaria sulla parola e sul movimento degli attori all’interno di una cornice scenografica. Tuttavia nel corso del Novecento sono maturate fondamentali esperienze artistiche che hanno trasformato il supporto illuminotecnico da accessorio a componente drammaturgica nella sintassi dello spettacolo (per esempio i percorsi creativi di Josef Svoboda, Robert Wilson, La Fura del Baus).

Da queste sommarie indicazioni deriva in un certo senso Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena, un libro importante e assai originale perché a scriverlo sono Cristina Grazioli, docente di Storia ed Estetica della Luce in Scena e Teatri di Figure all’università di Padova, e Pasquale Mari, affermato Disegnatore Luci e Direttore della Fotografia. I due autori, l’uno da una prospettiva storico-teorica e l’altro da un’ottica pratica, animano una sorta di dialogo di ascendenza platonica per riflettere e argomentare in che modo la «grammatica del vedere» sia strettamente legata alla «grammatica della rappresentazione», e come la luce e il colore producano, nella loro impaginazione estetica, uno stretto rapporto di interdipendenza, capace di rendere autonomo lo spettacolo visivo.

Il tema della luce si declina in dodici «voci» in corrispondenza dei mesi dell’anno con i loro effetti cromatici in quanto, come afferma il menzionato V. Pogacar, «le interpretazioni del colore percepito […] interferiscono con il campo delle valutazioni psicologiche e simboliche che hanno principalmente origine dalle nostre esperienze e raffronti con i cicli naturali quotidiani e annuali».
In questo modo queste «voci» – Invisibilità, Materia, Scrittura, Polvere, Buio, Colore, Movimento, Voce, Trasparenza, Atmosfera, Botanica, Aria – rinviano a corrispettive situazioni di uso della luce sul palcoscenico.

Il libro è corredato da un imponente e fondamentale apparato iconografico con riproduzioni fotografiche di materiali di varia natura che bene e con coerenza visualizzano il discorso dei due autori: sono opere d’arte, oggetti, fotografie di spettacoli di prosa, di lirica e cinematografici, anche locandine.

Dire luce è un libro interdisciplinare che pone le arti visive su una scacchiera con le pedine che si muovono continuamente, animando un lucido e intrigante gioco capace di abbattere i confini dei vari ambiti dello spettacolo e nel contempo creare una rete di brillanti connessioni espressive.

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6 Agosto 2021

Il segno di Ustica. L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Il segno di Ustica è un libro molto importante e per diversi motivi: da un lato, conserva la memoria del 27 giugno 1980 quando un Dc-9 dell’Itavia con ottantuno persone a bordo precipita in mare non per «cedimento strutturale» ma per essere stato abbattuto nel corso di un’azione di guerra tra aerei di diverse nazioni, alcune alleate con l’Italia; dall’altro lato, dà voce e respiro alla stessa memoria attraverso L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità come recita il sottotitolo del volume curato con maestria da Andrea Mochi Sigismondi, una delle anime assieme a Fiorenza Menni di questo fondamentale progetto condiviso con l’Associazione dei parenti delle vittime guidata dalla caparbia Daria Bonfietti.

«L’incontro con la strage di Ustica – afferma il curatore – è una di quelle esperienze che sono in grado di cambiare la prospettiva attraverso cui guardi il mondo». Ed è la stessa sensazione che si avverte via via leggendo i tanti e variegati contributi di questo libro correlato da un eccellente apparato iconografico. L’impaginazione assembla materiali divisi per sezioni tematiche, per «costruire immagini mentali», perché «per percepire l’enormità dell’accaduto bisogna accostarsi a un relitto composto da migliaia di frammenti recuperati a tremilasettecento metri sotto il mare», sottolinea ancora Mochi Sigismondi.

La prima sezione del libro, preceduta da una luminosa intervista alla sociologa Daria Bonfietti, si apre con il percorso indirizzato a Il Museo per la Memoria di Ustica allestito a Bologna e inaugurato nel 2007 e dove trova ospitalità l’installazione permanente di Christian Boltanski. All’intervista alla semiologa Patrizia Violi, che spiega come l’arte e la cultura possano sviluppare nuove interpretazioni su Ustica, seguono quelle al sociologo Roberto Grandi e alla storica dell’arte Maura Pozzati.

In Il teatro, la musica e la danza, la parte più corposa del volume, si raccolgono gli spettacoli legati alla vicenda di Ustica avviati nel 1992 dall’azione collettiva Le Antigoni della terra, creata da Marco Baliani. A raccontarli sono gli stessi ideatori e interpreti attraverso la formula della conversazione. Tra i tanti, spiccano i nomi di Marco Paolini con il suo Canto di Ustica e I-TGI Racconto per Ustica, Giovanna Marini, Pippo Pollina, Virgilio Sieni con Di fronte agli occhi degli altri, Marta Cuscunà, Motus.

Di rilievo è anche il ricco materiale raccolto nel capitolo dedicato a La poesia, con le dichiarazioni di nomi di spicco quali Francesca Mazza, Mariangela Gualtieri, Enzo Vetrano, Elena Bucci e Marco Sgrosso, fino a Roberto Latini, che ricordano le undici edizioni della manifestazione Notte di San Lorenzo tenuta di fronte al Museo per la Memoria di Ustica con la partecipazione di prestigiosi poeti.

Significativa è anche la partecipazione delle Arti visive, a dimostrazione dell’urgenza comunicativa avvertita dagli artisti contemporanei italiani come bene spiegano Lorenzo Balbi – direttore dell’Area Arte Moderna e Contemporanea dell’Istituzione Bologna Museo – e Tomaso Mario Bolis, che introducono i lavori creativi illustrati da Flavio Favelli, Giovanni Gaggia, Giuseppe De Mattia, Lamberto Pignotti.

Simili al coro di una tragedi greca, il susseguirsi di queste voci – di attori, cantanti, ballerini, fotografi, studiosi, poeti, artisti, musicisti – rivela in maniera trasversale il contributo fondamentale dell’arte e dello spettacolo per la conservazione della memoria di quella maledetta strage, di quel volo spezzato, del suo precipitare negli abissi indefiniti, per poi trovare quella «insepoltura», che l’immaginario alimentato dalle arti sceniche e performative può rendere inimmaginabile per mantenere viva la coscienza civile unita alla rabbia di fronte alle tante menzogne dette e scritte.

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2 Agosto 2021

Enriquez: trent’anni di successi, dalla prosa all’Opera. I primi debutti al Piccolo. Poi in TV. E la Compagnia dei Quattro

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Franco Enriquez (1927- 1980) è nato sei anni dopo Strehler, eppure, quando collaborò con lui, come assistente, credette di avere a che fare con un vecchio maestro, avendone intuito la grandezza. Era stato anche assistente di Visconti, ma lui si sentiva più vicino al fondatore, insieme a Grassi, del Piccolo Teatro, dove potrà vivere i suoi anni di «Accademia» e dove debutterà, come regista, a soli ventiquattro anni, con Cesare e Cleopatra di Shaw (1952), con la Compagnia Ricci-Magni.

Sempre al Piccolo, l’anno successivo, metterà in scena: Le veglie inutili di Giancarlo Sbragia, attore, ma anche autore, di cui si ricorda un bellissimo testo, Il fattaccio di giugno, 1967, andato in scena, sempre al Piccolo, con la sua regia.

Enriquez fu subito notato dai direttori della Rai, appena nata, scritturato per una serie di spettacoli teatrali che dovevano essere trasmessi dalla Televisione. Accettò, con la consapevolezza di utilizzare spazi e tecnologie diverse, tanto che le sue messinscene non potevano non risentire della sua formazione prettamente teatrale.

Nel 1954, primo anno di trasmissione della Rai TV, realizzò ben sei spettacoli, di autori come Goldoni, Shakespeare, Dostoevskij, Pirandello, ottenendo dei risultati sorprendenti, fino a raggiungere 18 milioni di spettatori.

Un volume, a cura di Paolo Larici, Franco Enriquez e il teatro di regia, edito da Cue Press, raccoglie una serie di testimonianze e di saggi critici che riportano al centro della storiografia teatrale la figura dell’artista fiorentino che seppe dare un notevole contributo a quella «regia critica» che, oltre a Visconti, Strehler e De Bosio, vantava dei continuatori proprio in Enriquez, Missiroli, Puecher, Tolusso, Cobelli, Puggelli, Pagliaro, e, successivamente, in Ronconi, Calenda, Castri, Lavia, Andò, Andrée Shammah.

Per trent’anni, libero da pregiudizi estetici, attento alla creazione di uno stile personale, Franco Enriquez è stato protagonista della scena italiana, imponendosi come un battitore libero, tanto da vederlo impegnato, oltre che negli spettacoli televisivi, anche nel teatro d’Opera, in Festival come quello del Dramma Antico di Siracusa, dove ha realizzato ben quattro tragedie: Le Fenicie (1968), Ippolito ed Elettra (1970), Medea (1972), il cui successo fu tale da essere insignito col Premio Eschilo d’oro, o in Festival come quello di San Miniato, dove realizzò Abelardo ed Eloisa (1978), con Glauco Mauri e Valeria Moriconi che ebbe un successo straordinario, tanto che Enriquez propose, per la stagione successiva, Conversazione con la morte di Testori, impresa impossibile, perché la morte lo colse l’anno dopo.

A Enriquez, dobbiamo alcuni spettacoli memorabili, a cominciare da La rosa di zolfo di Aniante, che debuttò al Festival di Venezia, al Rinoceronte di Ionesco, una novità straniera che fece esauriti in tutti i teatri d’Italia, grazie al quale, la critica gli riconobbe uno stile personale, oltre che un gusto particolare, per la sua capacità di alternare autori classici con autori moderni. De Monticelli scrisse: «Valeva la pena scendere quasi tutta la penisola per andare a vedere a Napoli Il rinoceronte di Ionesco che ha fatto registrare il tutto esaurito per diverse sere al Mercadante. È un risultato sorprendente, lo spettacolo è assai efficace nella sua rigorosa semplicità».

Enriquez vive, sulla pelle, il decennio 1968-78, con La Compagnia dei Quattro, con cui mette in scena altri autori poco noti, come Horvarth, Valle Inclan, Wescher, Durrenmatt, Max Frisch, il cui Andorra, una scelta controcorrente, visto il tema dell’antisemitismo, divenne una specie di consacrazione critica, poiché gli veniva riconosciuto anche il coraggio delle scelte. Dino Villatico, nel suo intervento, sostiene che Enriquez riusciva a dare un tocco universale alle sue messinscene ed aggiunge che «nel teatro di parola l’andamento sembra musicale, mentre in quello musicale sembra alludere al teatro di parola».
Michele Mirabella ricorda i suoi inizi accanto a Enriquez, come assistente alla regia, nel Macbeth, che ritiene una delle regie più belle, ammettendo che, grazie a lui, ebbe modo di capire la tragedia di Shakespeare, pur avendo letto e riletto le pagine del testo.
A Paolo Larici, curatore del volume, dobbiamo l’analisi delle varie versioni della Bisbetica domata, in particolare della prima edizione, quando Enriquez portò in scena la Compagnia dei Quattro su una Balilla, alludendo a un segnale critico e irriverente nei confronti del regime; la Balilla divenne il «moderno cavallo di raggiro, la perfetta trasposizione di una burla».
Giovanni Antonucci inquadra, storicamente, tutte le regie teatrali realizzate da Enriquez per la televisione, attribuendogli il merito di aver trovato un ritmo narrativo e drammaturgico che divenne uno stile, oltre che un modello, per altri registi televisivi. Claudio Di Scanno lo definisce un regista che ha sempre amato il rischio perché scavalcava «il confine della realizzazione scenica».
Il libro, oltre che riconoscere in Enriquez un maestro di regia, tanto che Riccardo Muti, all’inizio del volume, lo definisce «uno dei più grandi registi italiani», si caratterizza per I Diari del Premio Nazionale a lui dedicato e per una ricca iconografia.

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23 Luglio 2021

Ruan Lingyu, la diva che lasciò cinque chilometri di disperati

Emiliano Morreale, «Il Venerdì di Repubblica»

Un tempo cinema voleva dire, per noi, Europa e Stati Uniti. La globalizzazione ci ha insegnato da qualche tempo a modificare le nostre prospettive: il mercato indiano o quello cinese sono ormai importanti quanto quello americano, da cui però ancora dipendiamo, e anche nel mondo dei divi le cose stanno così. Se alcune star cinesi o indiane sbarcano di tanto in tanto sugli schermi hollywoodiani, la maggior parte di loro ci rimangono ignote.
In realtà un «altro divismo» c’è sempre stato, e ricorda fra l’altro un libro di Cristina Colet dedicato a Ruan Lingyu. La diva di Shanghai anni Trenta (Cue Press).
Alla fine della stagione del cinema muto, che in Cina durò fino alla metà degli anni Trenta, Lingyu incarnò un modello femminile in bilico tra vecchio e nuovo, tradizione e modernità. I suoi personaggi di donna sofferente, prostituta o ragazza di campagna traviata dalla città, furono il mezzo che permise a una generazione di registi di sinistra di fare un cinema impegnato utilizzando lo schermo del melodramma: dall’esordio nel 1927 con A Couple in Name fino ai trionfi di titoli come Tre donne moderne, Goodbye Shanghai! e soprattutto The Goddess, titolo più noto.
Stretta in un momento di passaggio e di rivolgimenti politici e ideologici (sono gli anni dell’occupazione giapponese di Shanghai), la fine di Ruan Lingyu fu tragica. Forse per ripicca verso lo spietato ritratto della stampa offerto nel film National Custom, l’attrice subì una violenta campagna scandalistica sulla sua vita privata. Si uccise l’8 marzo del 1935 con un’overdose di barbiturici, come un personaggio dei suoi film. Il suo corteo funebre, raccontano, era lungo cinque chilometri di uomini e donne disperati.

19 Luglio 2021

Getta il libro, stringimi

Marina Fabbri, «L’indice», XXXVIII-7/8

Lodevole impresa quella di fornire finalmente al lettore italiano la traduzione di un’opera a tratti criptica nella sua complessità ma certamente affascinante. Akropolis è un testo poetico concepito per il teatro nel 1904 da Stanisław Wyspiański, drammaturgo e teorico del teatro, artista visivo, forse il maggiore esponente del modernismo in Polonia. Un saggio dello storico del teatro polacco Dariusz Kosiński fa luce sull’adattamento più famoso di questo testo per il teatro, messo in scena da Jerzy Grotowski nel 1962 in Polonia, fortunatamente ancora visibile in un filmato realizzato dalla tv americana nel 1968. Grotowski aveva così riassunto il senso del dramma di Wyspiański: «Akropolis si svolge sull’Acropoli e allo stesso tempo sulla collina del Wawel, ovvero, in altre parole, sul Wawel che è l’Acropoli polacca, dove l’intera tradizione europea, tutti i suoi motivi, sia della storia biblica che della storia antica, si sono dati una specie di appuntamento. Akropolis si svolge nel ‘cimitero delle tribù’. È proprio lì che assistiamo a un giudizio, per così dire, sui valori della cultura europea, su ciò che in essa è vitale e tragico.»

Il Wawel è la collina che sovrasta Cracovia, su cui sorgono una cattedrale e un castello reale che custodiscono i sepolcri e le testimonianze del glorioso passato della nazione. In Akropolis, alcune statue di questi sepolcri, ma anche figure rappresentate nei preziosi arazzi della cattedrale che raccontano storie della Bibbia e dell’Iliade, diventano nella fantasia del poeta i personaggi animati di una schermaglia poetica tutta basata sulla lotta tra il culto romantico dell’eroismo sublimato dalla morte, e la forza prepotente dell’amore, del piacere terreno. Per questo Wyspiański fa dire al personaggio della Fanciulla del monumento a Sołtyk: «Getta il libro, stringimi / e abbracciami, sorella! / Sii l’amato spirito / con cui stanotte vivo! / Cosa ti viene dagli stenti e dalle lacrime dei molti? E cosa dai supplizi del passato? (…). Getta via il libro, gettalo via / e diverremo, sorella mia, / vive, felici, incorrotte!». E poi ancora a Clio, musa della storia: «Via, libro – tortura e prigione / del pensiero e di ogni passione. / Hai avvelenato i cuori.»

E questo potrebbe essere uno dei motivi per cui un’opera in teoria così lontana dalla nostra sensibilità ci diventa subito familiare, poiché veicola la ribellione, paradossalmente abbatte i monumenti, o per lo meno ne scrolla via la polvere del patriottismo messianico. L’altro motivo è proprio l’idea stessa all’origine del testo, ovvero la «messa in movimento» delle icone immobili che rappresentano le idee e le credenze di un popolo, quello polacco, immerse in idee e credenze di provenienze antiche, come quelle giudaiche della Bibbia e quelle greche del poema omerico. Come rileva Ceccherelli, per questo si potrebbe auspicare addirittura che «poiché il ‘teatro enorme’ di Wyspiański nasce da un’immaginazione quasi cinematografica, che unisce luoghi, persone, cose, tempi in un insieme in movimento con effetti che la Decima Musa, come e più ancora di Melpomene, potrebbe realizzare in modo efficace, chissà che Akropolis, le cui qualità cinematografiche erano già state notate (…), non possa un giorno fornire una sceneggiatura intrigante anche per un film d’animazione, realizzato naturalmente al computer».

Attenzione però alla furia iconoclasta, che oggi come ieri sperimentiamo nel diffondersi della cancel culture, perché Wyspiański non ne è una vittima, al contrario. Quella di Akropolis infatti non è una passione, ma una resurrezione, essendo quello pasquale il rito a cui si riferisce la Grande Notte in cui si svolge il singolare concilio di statue e figure del mito. «Non è, quella di Akropolis, la Pasqua consueta, non riguarda le persone in carne e ossa. Tutto avviene sul piano dell’arte, della cultura: a dover ‘alzarsi dai morti’ (così letteralmente ‘risorgere’ in polacco) è la cultura polacca, ipostatizzata nel Wawel, che deve perdere la sua connotazione di sepolcreto della nazione». Un appello alla resurrezione per le sorti disgraziate di questo paese, perennemente in preda ai drammi della storia ma anche dilaniato da quelli tutti autoctoni della politica.

19 Luglio 2021

Performance: rito o teatro? Ma diventa arte, se dalla vita passa al sublime della scena. Vedasi anche Grotowskij

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Dopo Introduzione ai Performance Studies, di Richard Schechner, con prefazione di Marco De Marinis, a cura di Dario Tomasello, Cue Press pubblica un volume dello stesso Tomasello e di Piermario Vescovo: La performance controversa. Tra vocazione rituale e vocazione teatrale, nel quale, i due autori, il primo docente di Storia della Performance, all’Università di Messina, il secondo docente di Storia del Teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ritornano sul «luogo del delitto», per cercare di chiarire il perché la categoria della Performance abbia un carattere controverso e, a volte, contraddittorio, subendo, per la sua pervasività, persino le angherie di detrattori. I quali preferiscono il teatro come testo e rappresentazione. Lo ritengono, infatti, un cardine esclusivo dell’esercizio della professione d’attore che ha seguito una scuola e che gli permette di essere considerato un professionista, al contrario del performer, che segue solo i suoi istinti e che si affida alle proprie capacità inventive che, spesso, si esauriscono nel momento in cui conclude la propria performance.

Perché leggere questo libro è importante? Proprio per non incorrere in certe banalizzazioni o, addirittura, nel rifiuto di una categoria complessa, oltre che multidisciplinare. Il performer è colui che viene colto nell’atto in cui compie o esegue una azione che può accadere in contesti diversi, dentro o fuori dal teatro, offrendo, in quell’occasione, una prestazione straordinaria. Ecco la parola magica che permette a tutti coloro che la compiono di essere chiamati performer, che possono venire, a loro volta, da professioni diverse; si va dal politico, al ginnasta, al calciatore, all’erotomane e, persino, al gestore dell’alta finanza, proprio perché ciascuno può vantarsi delle proprie prestazioni. Ciò vorrebbe dire che esista un abuso del termine e che lo si utilizzi in maniera controversa. I due autori, pertanto, si sono assunti il compito di eliminare il paradosso, ricercandone le origini terminologiche e gli usi che sono stati fatti durante i secoli, seguendo, però, come indagine, il lessico legato alla scrittura drammatica e distinguendo tra Performance Art e Performing arts, appartenendo, la prima, all’arte visuale, alquanto simile all’«Action painting», con la sua occasionalità, causalità e improvvisità, che può estendersi al teatro, la seconda da intendere come arte dello spettacolo che contempla la teatralizzazione dell’atto stesso. Vescovo è convinto che «performance» e «performativo» abbiano finito per coprire un campo molto esteso, addirittura senza confini, generando quegli equivoci che andrebbero ricercati in Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione) e nello stesso Schechner.

Diventa, allora, necessario distinguere tra la Performance che appartiene alla vita, alla socialità, da quella che appartiene al teatro, fino a coinvolgere lo stesso Grotowskij, per il quale bisognava sostituire lo spettacolare col rituale e l’attore con l’attante. Dario Tomasello ritiene che esistano categorie, nelle quali, la Performance possa trovare un suo habitat e che fuori da queste categorie non sia catalogabile, chiedendosi, nel frattempo, quando si possa parlare di vera arte. La risposta è molto semplice: quando si accede a una dimensione sublime che coincida col sublime della scena, la stessa che è possibile trovare in Grotowskij, Barba, Carmelo Bene, De Berardinis e, persino, in Eduardo. Come studioso, Tomasello parte da Schechner, evita Lehmann che, nel suo Postdrammatico evita di parlare di Performance, per arrivare all’«intra-teatralità» e a un dubbio metodico. «Possiamo affermare, con assoluta convinzione, che la Performance reclami, perentoriamente, una specificità da opporre a quella del teatro di cui spesso si paventa la rarefazione?», trovandosi d’accordo con Lorenzo Mango e con De Marinis, per il quale esiste l’inutilità di una disputa terminologica, ma, forse, anche con Mackenzie, per il quale la Performance debba essere intesa come forma di conoscenza, benché Dario Tomasello sia convinto che possa ritenersi tale a livello disciplinare, ma non certo a livello storico, dato che la Performance è nata nel momento in cui un ur-performer decise di dialogare con la sua comunità, attraverso l’uso del corpo e della gestualità, mettendo le basi della ritualità sociale che, nel tempo, diventerà ritualità sacrale.

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2 Luglio 2021

In bilico tra abissi, rive e seduzioni. Viaggio tra gli scritti di Vachtangov

Angela Forti, «Teatro e Critica»

Dopo gli scritti di Mejerchol’d (Cultura non è star sopra un albero. Mejerchol’d e il teatro dell’avvenire), Fausto Malcovati ci accompagna nella lettura dei brevi, frammentari scritti E. B. Vachtangov, personaggio forse meno popolare negli studi teatrali, ma pur sempre nodale nello sviluppo del teatro russo del primo Novecento. Il sistema e l’eccezione, pubblicato da Cue Press nel 2020, tenta di mettere in ordine e assegnare un percorso ai pochi scritti che di questo autore sono rimasti. Dagli appunti di pedagogia alle lettere, dalle note di diario alle regie. Un percorso accidentato, a tappe, nella vita dedita e minuziosa di un uomo del teatro e per il teatro. Nella lunga e dettagliata introduzione al volume, Malcovati ci avverte delle tematiche centrali del pensiero di Vachtangov, così come della poca organicità e della forte emotività che influisce sui suoi scritti. La biografia di Vachtangov è costantemente accompagnata dalla lotta contro una malattia subdola e invalidante. Numerose sono le lettere inviate dall’ennesima casa di cura, nelle quali l’autore si scusa per l’utilizzo della matita e per la calligrafia poco ordinata.

Molto presto nella lettura emerge il punto nodale della ricerca e dell’esperienza artistica di Vachtangov, ovvero il teatro come pedagogia. Dapprima da allievo, dedito e licenzioso, ammiratore entusiasta del Sistema stanislavskijano; poi da Maestro e da direttore dei numerosi studi che gli vengono affidati in uno stretto giro di anni; quello che emerge dai suoi scritti è un Maestro affezionato e generoso, ma anche severo, puntiglioso, spesso irascibile nell’invocare una disciplina, quella che lui definisce «studieità», che non riguarda soltanto la pratica teatrale ma che deve regolare tutta la vita degli studenti, in uno slancio totale nei confronti dell’arte e del teatro. Così come la narrazione è scandita dalla malattia che incalza e le sempre più rare dimissioni, così anche la psicologia dell’autore oscilla pericolosamente tra slanci di grande entusiasmo e iniziativa a pensieri di sconforto, delusione e angoscia. Tra le preoccupazioni principali di Vachtangov è il tempo che corre, la volontà di lasciare un’eredità il più possibile fertile, di farsi ricordare non solo come maestro ma anche come artista. Per Vachtangov la regia non rappresenta ancora, in questa fase, una disciplina autonoma, ma è a tutti gli effetti un’estensione della funzione pedagogica del maestro. Egli partecipa in prima persona alle rappresentazioni degli Studi, impara con i propri studenti, anche mettendo a rischio la propria autorevolezza e il proprio ruolo di regista. Negli appunti relativi alle regie la riflessione si concentra sull’attore e sul personaggio, lo spazio scenico viene chiamato in causa come correlativo contestuale dell’attore, come estensione della psicologia e dei temi dell’opera, in un’innovazione coraggiosa ma al contempo lontana, almeno nelle intenzioni, dalle sperimentazioni più ardite degli autori a lui contemporanei. L’aspetto pedagogico è preponderante in tutti i capitoli del libro, e va di pari passo con la rivisitazione critica dei maestri dello stesso Vachtangov, Stanislavkij, Suleržickij e Nemirovič-Dančenko, i cui modelli di insegnamento sono condivisi con ammirazione e entusiasmo, ma di cui sono criticati fortemente gli orientamenti registici, in una revisione sempre più forte di quel realismo che anche a Vachtangov appare, ormai, fuori tempo, e che viene rinnegato in favore di un nuovo e più consistente coinvolgimento dello spettatore e di una sua rinnovata consapevolezza nei confronti dello spettacolo, sulla scia di quello che stava teorizzando Mejerchol’d negli stessi anni.

Anche la Rivoluzione assume un volto nuovo negli scritti di Vachtangov. Complice la frammentarietà dei contributi di questo volume, essa giunge nel pensiero dell’autore quasi all’improvviso, con un discreto ritardo; nel momento in cui compare, però, assume un ruolo centrale, dirompente, soprattutto per quanto riguarda la concezione del rapporto tra attore e spettatore. A questo punto, a partire dalla messinscena dell’Erik IV, Vachtangov dichiara la fine dello studio della revivescenza stanislavskijana e inaugura un periodo di ricerca di forme teatrali: «Questo è il primo esperimento. Un esperimento a cui ci hanno spinto i nostri giorni, i giorni della Rivoluzione». La Rivoluzione, infatti, chiede un teatro fatto con il pubblico e per il pubblico, e soprattutto pone nuovi interrogativi, aprendo lo spazio a una riflessione inedita che si impernia sul termine «giustificazione». L’arte, con la Rivoluzione, non basta più a sé stessa; il naturalismo non è più scontato; la scenografia, le tematiche, gli attori non sono più scontati. Vachtangov non avrà mai il tempo di realizzarlo pienamente, ma intuisce perfettamente che a un mondo nuovo ciò che serve è un teatro nuovo, capace di «sentire l’oggi nel domani e il domani nell’oggi».

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28 Giugno 2021

Il segno di Ustica. In un volume le testimonianze d’arte e di teatro

Nicola Arrigoni, «La Provincia»

Il teatro è uno straordinario strumento di coscienza civile. Nel quarantunesimo anniversario della strage di Ustica, piace perciò segnalare il volume, a cura di Andrea Mochi Sismondi, Il segno di Ustica. L’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità, pubblicato dalla casa editrice Cue Press (pagine 322, € 29.99). Il volume documenta e mette insieme quanto fatto — grazie all’attività propulsiva dell’associazione Parenti delle Vittime — per non far calare il sipario su Ustica, per non stancarsi di chiedere la verità dei fatti. In questo contesto le azioni artistiche, le performance, il confronto con le verità taciute e i silenzi coatti rappresentano un esempio di resilienza, la dimostrazione — trasformata in racconto e documentazione — di quanto l’agire artistico, il produrre poetico permetta di non abbassare la guardia, di essere vigili e pungoli della coscienza collettiva. Non è cosa da poco.