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Dalla Grecia arcaica alla Grecia di Pericle, il dualismo è arrivato ai giorni nostri
3 Ottobre 2022

Dalla Grecia arcaica alla Grecia di Pericle, il dualismo è arrivato ai giorni nostri

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Esistono dei periodi e delle culture che sono contrassegnate dalla «scrittura» orale e altri che vedono l’affermazione della scrittura letteraria; entrambe utilizzano la parola con finalità narrative o teatrali. Possono essere, in generale, caratterizzate da periodi più o meno brevi, come accadde nella Grecia antica, prima dell’avvento di Pericle, quando la recitazione orale si contrassegnava come fenomeno di gruppo, oppure da periodi più lunghi, quando la scrittura permetteva che la recitazione fosse un’operazione di tipo individuale.

Com’è noto, la trasmissione orale si era caratterizzata anche per la sua capacità di trasmettere il sapere, grazie alla presenza dei poeti che la trasformarono in generi teatrali, come la tragedia e la commedia. C’è da dire che la trasmissione orale avveniva in spazi liberi che davano soltanto l’idea della scena, dove si esibivano gli Aedi e i Cantori, inventori, a loro volta, della parola come «Azione parlata», che fa venire in mente un saggio giovanile di Pirandello, dallo stesso titolo; azione parlata che, con altri stratagemmi, dovuti all’invenzione dei dialoghi e alla partecipazione del Coro, veniva ereditata da Eschilo, Sofocle, Euripide, con la sola differenza che trattavasi di quella particolare parola poetica che, appena detta, diventava azione, senza ausilio di apparati scenografici.

A dire il vero, questo trapasso si verifica in tutte le culture delle origini, come sarà, per esempio, quella medioevale, quando nacque la tradizione orale ad opera dei Trovatori, prima dell’avvento della grande poesia trecentesca, a cominciare dalla Commedia di Dante. Se poi vogliamo ancora indicare, in tempi più ravvicinati a nostri, una nuova cultura delle origini, bisogna partire dagli anni Settanta, quando cominciò ad affermarsi il Teatro dell’Oralità.

In un volume, pubblicato da Cue Press: Lingua orale e Parola scenica. Risorsa e testimonianza a cura di Vera Cantoni e Nicolò Casella, l’argomento viene trattato con una serie di brevi saggi che mostrano un andamento storico, pur se con qualche indagine spuria che riguarda autori come Chekov, Beckett, Jelinek; per i quali Fausto Malcovati, Tommaso Gennari e Roberto Nicoli — sostenendo che in alcune loro opere si avverte un rapporto con il linguaggio orale, da cui deriverebbe, in parte, la loro scrittura — ricercano elementi che, appunto, possano far pensare a una pseudo oralità, dovuta a certi innesti presi dalla tradizione popolare. Il bisogno dell’oralità, a parte quella «primaria», di cui ha scritto Walter Ong, avviene quando chi scrive per il teatro avverte momenti di stasi, se non di regresso della lingua scritta che, a sua volta, necessita di una linfa vitale che può esserle data da un uso particolare della comicità o dei vari dialetti. Pietro De Sario fa riferimento, per esempio, all’oratoria politica, dalla forte componente orale, presente nell’Ecclesiazuse di Aristofane, mentre Giorgia Bandini evidenzia le «ricorsività foniche» presenti nei Menecmi di Plauto.

Come detto sopra, non potevano mancare gli interventi sul Teatro dell’Oralità, in particolare quello che fa uso di forme dialettali, come accade in Marco Paolini, Gaspare Balsamo, Emilio Isgrò; e ancora, all’uso di «Lingue nuove», a cui ricorrerebbe Federico Tiezzi quando porta in scena testi non teatrali. Il ricorso all’uso dei dialetti non è del tutto nuovo, ma si è reso necessario quando intende dimostrare come la profonda ricchezza fosse dovuta alla capacità, insita in loro, della trasmissione orale, proprio perché contengono componenti non scritte, ma verbali, che risentono della tradizione orale che diventa, a sua volta, una vera e propria risorsa di quella scritta. Questa derivazione è maggiormente presente quando si ricorre al «Cuntu», come fa Gaspare Balsamo e altri cuntisti.

Oggi assistiamo a un fenomeno di quella che, sempre Ong, definisce «oralità secondaria», tipica di una nuova era liminale, dove la scrittura è contaminata dall’uso dell’elettronica che permette all’espressione verbale un maggior coinvolgimento, dovuto a ben noti apparati tecnologici ed elettronici che spesso nascondono, grazie agli alti volumi sonori, pratiche effimere e, a volte, dilettantesche. Il volume contiene anche un «Cantare» di Giuliano Scabia: Nella voce a passo di fiato.